… E ANCORA PARTENZA.
02/12/2013 Valle dell’Orco, Italia
Non mi ricordo quante volte avrò inscatolato bici per portarle dall’altra parte del mondo eppure mi sembra di non avere imparato ancora molto. Smonto, sgonfio, incastro e poi rimonto. Incarto pezzi come fossero pacchetti regalo, non si deve rompere niente, non devo perdere nemmeno una singola vite…anche in caso cadesse in mare lo scatolone, poi rinforzo con altro cartone le parti più delicate nel caso qualcuno si divertisse a saltarci sopra. Pesa da non poterlo tenere sollevato per più di qualche secondo e mi vedo già supplicante al check in che imploro comprensione per i miei abbondanti chili sopra il limite. E’ una bella sensazione quando do il primo giro di nastro per sigillare il tutto. Basta pensieri, quello che c’è li dentro deve essere tutto quello di cui avrò bisogno per i prossimi difficili mesi e non ci penso più…sembra sollievo. Ora basta solo imbarcare il tutto e trovare un modo per arrivare a destinazione. Non ho nessun dubbio nell’ammettere che questa è sempre stata la parte più difficile e angosciante di ogni mio viaggio ma sta volta sono con Federica e tutto sembra in discesa. Africa domani siamo li!
Dino
IMPRESSIONI D’ETIOPIA
10/12/2013
E’ l’Etiopia, il primo paese che ci accoglie per la prima volta in terra africana per un’altra avventura in bicicletta, un sogno che finalmente si avvera ad ogni pedalata…verso il Sud Africa.
Siamo al terzo giorno dalla nostra partenza da Addis Ababa, la capitale, 4° città più grande del continente, oltre 80 km di trafficata e polverosa periferia ma, subito dopo, 250 km di dolcissima discesa prima di raggiungere la silenziosa Rift Valley, zona dei laghi. Gli scenari sono quelli tipici: villaggi di capanne circolari fatte di fango e paglia sparse qua e la, in distese di terre aride macchiate da alberi di acacia. Mandrie di buoi dalle corna lunghissime pascolano assieme ad asini carichi di fieno, guidati da umili nomadi coperti con brandelli di vestiti consumati di chissà quante storie. Ma l’immagine più viva che continua a rincorrerci è quella dei bimbi che improvvisamente sbucano fuori dai loro cortili, scendono in un balzo dagli alberi che ci accompagnano con le loro acute vocine urlando a squarciagola: You! You! You! You! You! Farangi! Farangi! Che vuol dire straniero. E’ il loro modo di attirare l’attenzione, sventolano le manine cercando un saluto, chi è più svelto riesce a raggiungerci sul ciglio della strada sperando in qualche banconota Birr o addirittura penne, chissà cosa se ne faranno, mi domando io che è un paese così povero che non ha né acqua, né beni di prima necessità, figuriamoci se hanno la carta, ma noi alla loro mano aperta rispondiamo con un “cinque” un gran sorriso e qualche battuta.
Non è di certo iniziato come un viaggio introspettivo questo, siamo impegnati tutto il tempo a non farci scappare un solo saluto, è quasi più impegnativo che pedalare sotto il sole cocente!
Nei pochi momenti di silenzio, invece, impegniamo le nostre menti nel memorizzare alcune parole e frasi fondamentali per sopravvivere, che richiedono molto sforzo, dato che l’Amarico non è per nulla una lingua facile!! “Merci”, “Gracias”, “Danke”, “Tak”, “Cop Ciai”, anche in cinese dire grazie è semplice “Shè Shè”, ma in questa terra, non è così scontato, si dice così: “A muh suh gi na lu hu”. (!!!) E’ un suono che ricorda l’arabo e l’hibru, ma dei suoni più rotondi dell’africano ha gran poco.
Un altro momento della giornata per nulla semplice ma divertente, è quando sale la fame e nelle locande dobbiamo spiegare che non mangiamo carne. Gli occhi scuri degli etiopi si spalancano increduli e poco dopo si percepisce un senso di dispiacere per non poterci offrire uno dei loro piatti tipici: il kitfo, semplicemente carne cruda! Siamo muniti di un dizionario illustrato, ci siamo fatti scrivere in amarico che mangiamo qualsiasi cosa, purchè non sia carne “Siga yelelew migeb”, cerchiamo di scandire bene quelle poche parole che abbiamo imparato ed ecco quindi che ci arriva un piattone di… insalata! Ci sembra di aver capito che qui non sarà semplice come l’India…ma non perdiamo le speranze e, insistendo e pazientando un pochino, aspettiamo il mercoledì e il venerdì, giorni di digiuno per la chiesa etiopica, e riusciamo a mangiare un piatto vegetariano! Injera con lenticchie e verdure, semplicemente delizioso! L’injera è una specie di piadina azzima condita con varie pietanze molto speziate, il tutto si mangia rigorosamente con la mano destra, ma purtroppo non è ben visto il godereccio leccarsi le dita!
E con le pance piene, la nostra soddisfazione termina con un’elegante cerimonia del caffè, bevanda nazionale che è servito da un colorato recipiente di porcellana in piccole tazzine raffiguranti il leone, simbolo rastafariano. Il tutto accompagnata alla combustione di un profumatissimo incenso.
Una vera cerimonia si conclude con tre giri di caffè…ora sì che siamo pronti per ripartire in sella!!
Federica
YU YU YU YU YU YU YU!!!
15/12/2013
L’iniziale entusiasmo nel salutare chiunque sta lentamente svanendo in concomitanza all’avvicinarsi delle salite. Il dolce deserto piano punteggiato di capanne tonde di legna e fango lascia piano piano il posto ad una rigogliosa foresta di banani e alti alberi dalle larghe foglie verdissime. Salita, ma non quella bella che ti porta la su in cima alle montagna da dove godi del panorama, ma quella falsa che subito è seguita da una veloce discesa che s’infrange ancora una volta addosso ad un muro ripido da scalare. Su e giù, su e giù e fin qui stringendo i denti ce la facciamo, vedo sempre Federica la davanti a me che sale mentre io piano piano seguo molto più stanco e molto più provato. Un torcicollo fastidiosissimo m’inchioda sulla sella e, come se non bastasse, inizia a scendermi sangue dal naso che mi colora baffi e barba di rosso, sicuramente non sono un bello spettacolo. Federica sdrammatizza prendendomi in giro ma cristo che fatica. Non posso respirare correttamente, devo contrastare le gocce di sangue che cadono con continue tirate di naso, spero che questa giornata finisca molto presto ma siamo all’inizio. I vivaci ragazzini che correvano verso di noi dalle misere capanne o che ci salutavano dai campi ora si tramutano in sciami di indemoniati corridori che c’inseguono al grido insopportabile di “YU YU YU YU YU!!!” Ogni Etiope al di sotto di un metro e venti ci rincorre. Ci vedono ancora prima che noi varchiamo le porte dei villaggi e scendono in strada urlando come forsennati. “give me pen give me pen” dammi penna dammi penna…oppure “give me sweet” o meglio ancora “give me caramella”. Tutti a chiedere qualcosa, chiedere, chiedere. Per tutta la durata della salita non mollano, proviamo quindi a prendere vantaggio nelle discese pedalando come dei matti, ma non serve, nella salita dopo ce li abbiamo ancora tutti addosso, mi vien da pensare che i fortissimi maratoneti Etiopi cominciano ad allenarsi così. Di villaggio in villaggio senza mai un secondo di pausa…quelli del primo villaggio corrono fin che non si aggiungono quelli che ci attendono al villaggio successivo e così via, alcuni abbandonano mentre altri imperterriti me li trovo attorno per diverse salite e discese. Fermarsi per pisciare è impossibile, fare una foto è impensabile…stiamo letteralmente scappando. Il sangue cessa di uscirmi dal naso ma il collo non lo posso ancora muovere…mentre tutta l’Etiopia ci rincorre. Così per giorni e giorni e i nostri nervi sono a fior di pelle. Ad essere sinceri avevamo letto di questo fenomeno in alcuni blog di viaggiatori ma, gagliardi delle nostre esperienze, pensavamo una cosa controllabile. Per alcuni grandi viaggiatori questo paese è stato definito il peggiore da attraversare in bici e anche questo lo avevamo ignorato. Ora capisco, ora vedo e non me ne capacito. Le giornate sulla strada proseguono come sopra e mi diverto facendo esorcizzi di autocontrollo fingendo che intorno a me non ci sia nessuno, mi concentro e provo a non sentire. Ci riesco forse per alcuni istanti e poi “YU YU YU YU YU”. Allora l’unica ci sembra spararci nelle orecchie musica a tutto volume e a testa bassa andare avanti. Le grida le sento ancora in lontananza ma sta roba aiuta. Isolati dal mondo e bombardati da musica altissima saliamo le dure salite stringendo i denti sia per la fatica ma soprattutto per sta situazione che non capacitiamo ancora. Turisti! Il mio pensiero va al primo di loro che, scendendo da un bel fuori strada con l’aria condizionata, ha dato la prima penna a uno di questi bambini. Da quel momento ogni bambino si aspetterà il medesimo comportamento da ogni uomo bianco che passera di li. Ovvio che questo elargire penne, caramelle e quant’altro è pratica diffusissima in ogni paese del terzo mondo, è una cosa che il turista fa pensando di dare un contributo alla povertà tutt’intorno. Penne in cambio di notti serene, caramelle per far finta di non vedere questo mondo di cui siamo artefici, ancora penne per lavarcene le mani di tutto e aspettarsi anche un grazie. Sono convinto che in buona fede c’è qualcuno che lo fa con la speranza che un bambino possa studiare e un giorno diventare dottore e guarire tutto il villaggio, sono convinto che un turista, che sta qui dieci giorni perché il prossimo lunedì deve essere in ufficio, non contempli minimamente un rapporto diverso tra chi tende la mano e lui. Il fuori strada sta per ripartire e bisogna correre via perché fra 300 km ci sono gli elefanti da fotografare. Forse mai nessuno ha pensato che invece di mettere caramelle in quelle decine di mani tese non sia meglio stare con quei bambini a fare semplicemente i deficienti ma passando così un po di tempo assieme? Io ho sempre reagito così a queste imbarazzanti scene di accattonaggio che il turismo di massa ha provocato. Non ho mai dato penne ne qualsiasi altra cosa ma semplicemente parcheggiato la bici e cercato di parlare, di spiegare da dove vengo e chi sono…perché ho una bici e perché sono qui. Giuro che sono poi ripartito con una bella sensazione nel cuore ma sicuramente senza nessuna pretesa di aver cambiato il mondo, solo con l’intento che il prossimo che arriverà in quel villaggio venga accolto con curiosità e sorrisi senza più mani tese proprio come è successo a me. Premetto che una cosa come sto paese non era nemmeno lontanamente immaginabile e mi sento di rivolgermi a te turista che vieni in Africa col pacchetto all-inclusive sfrecciante su una grossa macchina climatizzata. Non partire da casa con cianfrusaglie da dare a caso come spargere il mangime per i polli, siediti e spendi il tuo prezioso tempo con la gente che incontri, ti prego fallo…ne gioverà a te e a chi t’incontrerà…e soprattutto a chi come me verrà dopo di te. Per tutti quelli invece che hanno contribuito a fare dell’Etiopia una fiumana di bambini accattoni urlanti…beh dal profondo del mio cuore che pompa sangue e rabbia in cima a questa salita avvolta dalle grida YUYUYUYU…vi maledico!
Dino
KENYA, SVIZZERA D’AFRICA
22/12/2013 Nairobi, Kenya
L’arrivo al confine con il Kenya è in discesa, siamo belli stanchi e decidiamo di fermarci prima della frontiera in un bell’alberghetto a riposare. All’alba siamo i primi, o meglio gli unici, a fare i documenti per uscire dall’Etiopia. Secondo moltissimi blogger questo è uno dei confini più brutti e pericolosi ma garantisco che non è così, ne ho passati di ben più terrificanti. Le procedure in Kenia si svolgono serenamente chiacchierando con i funzionari e ricevendo un caloroso ben venuto e auguri di viaggio sicuro. Da qualche anno i territori a nord di questa regione sono teatro di scontri tribali per il possesso dei rari pascoli e, grazie al consiglio di chi è già stato quì prima di noi, decidiamo di prendere un autobus fino ad Isilolo per continuare a dormire sonni tranquilli. Il viaggio? Uno dei più rocamboleschi e divertenti di sempre. Seduti proprio sopra le ruote posteriori sobbalziamo allegramente per dodici ore buone e la nostra pazienza però incredibilmente tiene. Fuori dal finestrino scorre una distesa brulla di piccoli arbusti che, coll’addentrarci sempre di più nelle zone tribali, si trasforma in un deserto roccioso marziano rosso fuoco. Ringrazio per essere su un mezzo a motore, in bici ci avremmo messo quattro giorni o forse più e la maggior parte li avremmo trascorsi spingendo e con l’incubo di rimanere senza acqua. Anche la vista di gente armata di AK 47 ci rallegra per la nostra scelta. Arriviamo di notte ad Isiolo ma ce la caviamo benissimo alla stazione e troviamo un posto da dormire in men che non si dica. Ripartiamo ben riposati dopo un giorno di sosta verso il monte Kenya. C’aspettiamo da un momento all’altro che dall’orizzonte spunti la sua sagoma ma ci tocca prima fare i conti con la salita. Ci arrampichiamo per strade strette ma ben asfaltate, i camion ci fanno un po paura ma con prudenza proseguiamo lentamente. La gente è molto ospitale e siamo sempre accolti con grandi sorrisi nei mercati o nei ristorantini in cui ci fermiamo per pasti al volo. Con piacevole sorpresa la stragrande maggioranza delle persone parla inglese e un po di conversazione la si fa per strada, i bambini rimangono sempre sorpresi alla nostra apparizione davanti alle loro porte di casa ma, contrariamente ai bambini etiopi, la loro reazione è contenuta. Ci rincorrono si ma senza schiamazzi ne mani tese e duo tre battute le scambiamo anche grondanti di sudore su per ste montagne. Una mattina ci sorprende anche la pioggia ma non è un dramma, il traffico in crescente aumento però si. Grossi camion ci sfiorano mentre la strada peggiora a vista d’occhio. Siamo costretti, con grande fatica, a stare fuori dal ciglio e a pedalare sul sentiero che uomini e bestie usano per spostarsi da villaggio a villaggio. A volte siamo in mezzo all’erba alta e i copertoni scivolano, ogni tanto sarebbe bello risalire sulla strada per recuperare un po di forze, ma c’è sempre un grosso scalino d’asfalto che c’impedisce di saltar fuori da sto sentiero impantanato. Massima concentrazione e occhi aperti, non occorre che ci parliamo per capire che nessuno dei due si sta’ divertendo, dobbiamo solo tenere duro e sperare che la strada migliori in direzione della capitale. Il mio prezioso specchietto che mi accompagnava fin da Panama è rotto da qualche giorno e oggi mi sarebbe d’immenso aiuto, devo provvedere al più presto. La pioggia insiste e quasi godo quando lo scarico caldo dei grossi camion m’investe e mi riscalda le gambe nude, vorrei essere altrove ma oggi c’è questa strada avanti a noi e allora via a testa bassa con molta speranza. Verso sera le nuvole si diradano e lo fa anche il traffico che si spalma su una larga autostrada a molteplici corsie. Veniamo ristorati da una calda accoglienza in un modesto hotel e la giusta birretta di fine giornata ce la godiamo davvero tutta. Del monte Kenya abbiamo forse solo intravisto la sagoma in lontananza, grosse nubi hanno sempre occultato la sua compagnia che avevamo fatto il conto di avere almeno per tra giorni consecutivi alla nostra sinistra.
Oggi pedaliamo su l’autostrada diritta diritta fino a Nairobi ma tutto sommato l’arrivo in questa immensa metropoli non è dei peggiori, un traffico immenso e manovre pericolose ad ogni svolta ma ho ricordi d avere raggiunto capitali facendo salti mortali ben più alti. Ovviamente puntiamo la parte più economica della città e quindi anche la più malfamata, ci facciamo largo attraverso un dedalo di macchine in mezzo al quale si muove quasi disinvolta la gente che qui c’è nata. Carretti di frutta, ambulanti e raccataturisti si muovono sinuosi schivando cofani all’ultimo e infilandosi tra le pareti dei pullman che hanno l’ironica pretesa di andare da qualche parte. Potrebbe essere un girone dantesco e ci dobbiamo togliere di qua, optiamo per la prima accomodazione a caso pur che economica. Federica passa dei brutti cinque minuti mentre entro in un albergo per chiedere il prezzo ma tutto si sfiamma al mio ritorno, scarichiamo le borse e parcheggiamo le bici…siamo a Nairobi. La nostra presenza nella capitale è determinata solo da esigenze di viaggio, devo recuperare uno specchietto nuovo e cercare un conta chilometri perché il mio non conta più un bel niente. Sistemiamo per bene i nostri mezzi e dopo due giorni di riposo siamo di nuovo in sella verso il sud. Grazie al mio daltonismo scambio sul GPS il confine del parco dei Nairobi con la strada per farci uscire dalla città e ci perdiamo…sono proprio un pirla ma Federica mette a posto tutto e anche il mio orgoglio ferito. In due facili giorni di pianura scivoliamo verso la Tanzania incontrando i primi Masai del nostro viaggio.
Dino
QUASI INFINITA TANZANIA
03/01/2014 Arusha, Tanzania.
Anche questa frontiera è davvero facile, nel primo pomeriggio ci accompagna ,fin sul confine, una leggera discesa che ci presenta freschi e pronti per compilare eventuali scartoffie. Salto un po da un ufficio all’altro, pago 50$ e ho un visto per la Tanzania di tre mesi. Federica invece sfodera di nuovo il suo passaporto Mauriziano, che non necessita di Visa, e si siede ad aspettarmi mentre sbrigo le mie pratiche.
La Tanzania ha spazi immensi e strade larghe. Chiaramente queste praterie sono state strappate alla foresta per fare pascoli dove i Masai vivono con le loro mandrie. Sono alti e secchi secchi, rasati in testa e con dei grandi buchi sulle orecchie dove appendono gingilli di ogni genere. Estremamente fieri e gentili si muovono lenti avvolti da un suggestivo mantello rosso che, gonfiato dal vento, ne amplifica l’eleganza. Immancabile un sottile bastone che non lasciano mai, usato per sferzare violentissimi colpi sulle gobbe dei tori che insensibili obbediscono annoiati. Il cibo stuzzica, da calderoni fumanti mangiamo cibi semplici ma saporiti…una inaspettata deliziosa zuppa di capra ha rallentato, per il momento, la mia aspirazione al vegetarianesimo. Persone gentilissime ci accolgono ovunque e la prima parola che abbiamo imparato è stata “Karibu”, ben venuto. Arriviamo ad Arusha l’indomani, la strada é leggermente in salita e la sagoma del monte Meru ci accoglie in lontananza. Troviamo una accoglientissima Guest house e abbiamo anche il tempo per ripulire le bici e revisionarle da cima a fondo, ma che bella giornata…a dimenticavo, oggi è Natale. Dall’inizio del nostro viaggio incontriamo finalmente altri viaggiatori ma sono tutti troppo presi ad organizzare i loro safari e trekking per fare amicizia con noi, non insistiamo e stiamo a guardare. Nel parcheggio c’è un fuori strada olandese che abbiamo incontrato per ben due volte in Etiopia ma mai neanche un cenno di clacson, non ci stupiamo se la coppia che lo guida non ci caga nemmeno per striscio quando ci rivede per la terza volta entrare nella Guest house. Un gruppo di quattro sta discutendo animatamente con una guida per contrattare sul prezzo di un safari e i toni non sono del tutto amichevoli. Mentre l’unico che c’avvicina è un grosso russo siberiano mezzo moribondo per avere fatto un trekking e non essersi portato abbastanza acqua con se. Ci racconta un po dei safari e delle cose che presto farà. Una scalata al monte Kilimanjaro costa dai 1300 ai 1600$ per quattro giorni escluse le mance alla guida, ai portatori e al cuoco. Una giornata di safari al parco nazionale del Serengeti costa non meno di 250$ esclusi gli extra. Purtroppo il nostro budget è ben altra cose…con quei quattro giorni di trekking risparmiati noi concimo di arrivare fino a Cape Town e risparmiare pure qualcosa per una gran mangiata di fine viaggio. E si, l’Africa costa e un sacco direi. Senza nessun rancore lasciamo con calma tutti i safaristi alla loro colazione e riprendiamo le nostre orme verso Moshi piccola cittadina alle pendici del monte Kilimanjaro. Qui la solita storia, safari e trekking ma noi ci rintaniamo a riposare sul terrazzo di un carinissimo hotel da dove c’accontentiamo di vedere la vetta innevata di questo monte che è il simbolo indissolubile di questa parte d’africa e il sogno di migliaia di turisti.
Si riparte, fa caldissimo e percorriamo tappe lunghe anche 160km. Ma troviamo sempre piccoli posti dove dormire con modestissime stanze e con la doccia a secchiate. Bella e gentile gente. Trascorriamo il fine d’anno in un villaggio anonimo per la geografia ma di gente cordiale e cibo finalmente decente. Un paio di birre e alle 9 siamo già crollati sul letto. A mezzanotte qualche botto ci sveglia, ci scambiamo gli auguri, e poi di nuovo in un sonno profondo.
In Tanzania la bici è un mezzo comune, dalla mattina alla sera condividiamo la strada con decine di ciclisti solo che non trasportano quattro stracci e un po di cibo come noi ma bensì l’acqua. Ci sono pochissime fonti e lontane dai villaggi quasi sempre su letti di fiumi secchi, tutte le mattine bisogna andare a prendere l’acqua e portarla al villaggio. Si usa la tanica gialla, quella dell’olio vegetale per cucinare, centinaia, migliaia di taniche da 30 litri per dare da bere a tutta questa parte d’Africa. All’alba ci superano uomini di ogni età su cigolanti biciclette, dopo un po li incontriamo tornare lenti con anche tre, quattro taniche piene fino all’orlo. Sono più di 100 litri e non fanno una piega. Spingono su per le salite grondanti di sudore mentre io mi vergogno della mia ridicola fatica fatta solo per puro divertimento. Tutti avanti e indietro anche per più giro, bambini, giovani, vecchi, tutti su una bicicletta a spostare litri e litri d’acqua e tutti sereni. Questa cosa mi turba e non chiamerei sudore il mio. Lungo la strada un’altra cosa che ci colpisce sono i grossi sacchi di carbone straripanti lasciati in vendita lungo il ciglio della strada. Il carbone qui e l’unica fonte di calore per cucinare, rende più della legna ed è una attività che permette a chiunque di fare qualche soldo per campare. Anche questa è un’attività prettamente maschile; si accumula una grande quantità di legna secca e la si copre di terra lasciando che una lenta combustione trasformi rametti e tronchi in carbone leggero e fragile ideale per essere trasportato. Chi lo fa seriamente usa dei forni di mattoni cotti al sole ma per lo più vediamo per strada cumuli di terra fumanti con qualcuno li accanto che vigila che il fuoco non si spenga. Gli enormi sacchi sono tutti strapieni e la chiusura viene allungata con un’intreccio di corteccia per far si che ogni sacco ne possa contenere un bel po di più. Un grosso sacco di carbone pesa meno di due tanica d’acqua e allora vedi sempre quelli che portano carbone avanti a quelli con l’acqua su per le salite…e tutti ovviamente in bicicletta come noi o meglio noi come loro.
Le strade sono dolci, con sali e scendi poco faticosi e villaggi tutt’attorno. Il traffico non da fastidio solo il caldo ci schiaccia, temperature anche di 49°C ci tolgono il respiro e rallentano notevolmente la nostra cadenza di pedalate. Federica giustamente suggerisce di evitare le ore più calde ma qui sembra che faccia un caldo rovente tutto il santo giorno. Siamo entusiasti perché a breve raggiungeremo l’oceano Indiano e quindi stiamo lentamente procedendo in discesa infastiditi solamente da un leggero vento contrario. Arriviamo a Bagamoyo nel primo pomeriggio ed è facile notare che qui di turisti ne hanno visti ben pochi, l’affollatissima Zanzibar non è molto lontana da qui ma a Bagamoyo chi ci viene mai?. E’ un piccolo villaggio di pescatori con strade di sabbia e poco altro. Un grande mercato del pesce sorge tra le rovine di una fortezze arabe prima e tedesche poi. In grosse buche sulla sabbia ardono enormi bracieri con sopra calderoni d’olio bollente dove dei giovani ragazzi gettano manciate di peschi di vario tipo che mescolano continuamente con ramaioli grandi come badili. Dopo pochi minuti li stendono su dei banconi di legno troppo piccoli per contenere tutto quel pesce che velocemente viene rivenduto a peso in pacchetti di carta di giornale ancora caldo alla grande folla che vi ci si accalca vicino. Grosse barche a vela triangolare ormeggiate a qualche decina di metri all’argo vengono scaricate a nuoto da possenti palombari nudi. E le solite taniche d’acqua punteggiano ovunque lo sfondo. Il mare non è quello che uno si aspetta di trovare ma il piccolo villaggio ha la sua vivace frenesia e la gente di questo porticciolo lavora duro. I bastioni di questi forti sono crollati da tempo ma il lavorio di questa gente continua intenso e allo stesso modo di allora. Per la spiaggia ci colpisce, non solo i ruderi degli antichi palazzi ma, anche quelli di alcuni hotel di recente costruzione. Sulla piazzetta di quello che poteva essere un villaggio turistico, si vede ancora l’angolo bar con le mensole per i liquori tutte scassate, assistiamo ad un numero di acrobati con musica e balli e nessuno che poi alla fine passa con il cappello per ritirare il soldo della loro arte. Un po delusi decidiamo di spostarci l’indomani verso una spiaggia più a sud dove sappiamo esserci un campeggio in riva al mare. Anche qui tutto distrutto e disabitato tanto che ci viene il dubbio che un tifone abbia raso al suolo questa costa . Nulla di ciò, alla recepito dell’hotel di Dar Es Salaam ci spiegano che quei posti non si sono rinnovati e sono cascati in rovina…allora con un po di tristezza nel cuore eccoci qua in una stanza al quarto piano dell’hotel più economico della città ovviamente nella zona più pericolosa. Il nostro sperato relax in spiaggia sotto il sole per cancellare il segno dell’abbronzatura da ciclista s’infrange su questo porto antico ma non per bagnanti. Da poco lontano l’isola di Zanzibar ci saluta ma non è per noi, forse temiamo che ci deluda ulteriormente o meglio ancora non ce la possiamo permettere. Per mettere i piedi in ammollo allora guardiamo avanti, al lago Malawi sul quale contiamo di prenderci una lunga pausa di riposo nei giorni avvenire.
Dino
DAR ES SALAAM…E ANCORA NON E’ RIPOSO!
05/01/2014 Dar Es Salaam, Tanzania
Le mie gambe mi hanno supplicato a rimanere in una città che poco ha con l’idea che avevamo di riposo e relax. Siamo a più di 2000 km percorsi in poco più di un mese e siamo giunti a Dar Es Salaam, importante per la sua zona strategica sull’Oceano Indiano, funzionale porto di mare, fortunata per essere luogo di imbarco per chi voglia godere dell’acqua cristallina che bagna l’isola di Zanzibar, nota anche per essere stata uno dei famosi luoghi di partenza per la deportazione degli schiavi.
Speravamo di tuffarci nelle acque blu dell’oceano, ma il colore del mare che bagnava la costa della Tanzania per centinaia di chilometri ci ha lasciato abbastanza delusi, avevamo aspettative un po’ alte…ma apparentemente bisogna per forza allontanarsi dalla terra ferma e raggiungere le paradisiache isole di fronte…un ipotesi che abbiamo valutato, ma avrebbe sconvolto troppo i nostri piani…sappiamo che a breve raggiungeremo il lago Malawi noto per essere il posto ideale per riposarsi un po’…
Dar Es Salaam è una città multietnica dove anche Kapuscinsky ha trascorso un po’ del suo tempo e descrive, come solo lui sa fare, nel suo libro “In viaggio con Erodoto”, ma questo fu quando era popolata da appena 200 mila abitanti. Oggi in questa trafficata città oltre 3 milioni di africani e cinesi, arabi, indiane e occidentali vivono e pacificamente convivono tra di loro nella loro impegnata quotidianità.
Camminando per i vicoli della città mi sembra di essere d’improvviso in una città a me nota Port Louis, capitale dell’isola Mauritius…i vicoli sono stretti, con marciapiedi dissestati, cumuli d’immondizia aspettano di essere raccolti prima di essere spazzati via dal vento, carretti di frutta sostano sul ciglio della strada creando un normale ingorgo di macchine e motorini…si respira profumo di incenso e spezie indiane, si sente il muezzin che canta a squarciagola in nome di Allah e invita i suoi fedeli alla preghiera attraverso efficientissimi megafoni, wok di olio bollente su cerchioni di auto usati come bracieri, sono riciclati per friggere le innumerevoli patate che, assieme all’Ugali, una specie di polenta bianca, accompagnano sempre ogni pietanza a base di carne , verdure o fagioli. Vecchie macchine da cucire “Singer” di color nero, che ancora risplendono di fascino ed eleganza, sono in perfetta funzione all’uscio dell’umili botteghe di stoffa degli abili arabi che a capo chino lavorano instancabili per creare abiti di ogni genere.
Poco più un giorno di riposo e alle prime luci del mattino, solo dopo aver divorato una ricchissima colazione e indossato ben saldo il casco, ripartiamo di nuovo in sella alle nostre fedelissime biciclette e, dallo specchietto, vediamo la città di Dar Es Salaam allontanarsi e farsi sempre più polverosa e confusa…davanti a noi si apre una nuovissima strada di periferia ma interrotta in tratti molto ravvicinati da ruspe e grossi camion per lavori in corso…qualche chilometro più avanti iniziano le deviazioni e facciamo ben presto parte dell’inevitabile ingorgo di macchine, autobus e grossi camion delle 8 del mattino.
Entrare o uscire da una città e percorrere la sua periferia in bici non è mai gioioso. L’ingresso è in genere molto stressante, dovuta alla stanchezza della giornata trascorsa e il desiderio di raggiungere prima possibile un posto dove riposarsi. Si è estranei all’arrivo, spaesati dal traffico, infastiditi dai clacson e dallo smog, ma sappiamo che è una tappa d’obbligo per rifornirci di cibo, farci una bella doccia calda, sperare di avere accesso a internet e riposare un po’ chiappe e gambe…Uscire dalla città è altrettanto impegnativo, sono sempre lunghi e pericolosi i chilometri che ci porteranno di nuovo in strade silenziose. La calura urbana è inconfondibile e oggi l’unica ventata d’aria che circola, è quella degli autobus e dei camion che ti sfrecciano a pochi centimetri sul lato destro della strada…la polvere si mescola al sudore della faccia e sia appiccica alla pelle unta di crema solare. Siamo già luridi dopo nemmeno una decina di chilometri…pazienza…è bene allenarsi subito a questa perché sarà una giornata molto provante, sappiamo che questa è l’unica strada percorribile e non ci sarà nessuno svincolo per i prossimi 115 chilometri.
La complicità, lo scambio di battute quando ci superiamo in corsa, gli sguardi attraverso gli specchietti che ci sono di solito tra me e Dino mentre pedaliamo, svaniscono. Siamo seri e concentrati alla guida, mani strette sul manubrio e totale decisione ad ogni pedalata. Testa rigorosamente protetta dal casco che guarda dritta verso la strada e lo specchietto, strada e specchietto, strada e specchietto, sarebbe impensabile per il nostro collo voltarsi ogni minimo secondo!
Una giornata stancante e infinita che ci ha costretti per tutto il giorno a pedalare sulla panchina dissestata del lato sinistro della strada, sciolta dal caldo torrido e deformata dal peso dei grossi e innumerevoli Tir che trasportavano container arrivati al Porto di Dar Es Salaam da chissà quale posto dell’oceano indiano. E come se non bastasse dal cinquantesimo chilometro, mentre noi imperterriti continuiamo a pedalare verso est, ci si mette anche un forte vento che soffia da nord. Drammatica sensazione ogni qualvolta un enorme camion ci si para al nostro fianco e taglia il vento per qualche istante…è violentissimo lo scossone che provoca! Ci vuole ancora più concentrazione e un maggiore sforzo per tenere le braccia rigide al manubrio e il peso ben piantato a terra per mantenere in equilibrio la bici evitando di essere risucchiati dai giganteschi pneumatici che ci sfiorano le spalle. E’ paura, paura di finire la nostra avventura nel peggiore dei modi…ma non molti chilometri dopo, le nostre preghiere vengono ascoltate e con il cuore pieno di speranza notiamo che la strada si curva verso sud. Evvai vento a favore che soffia alle spalle giù fino a Charinze dove, senza badare a spese decidiamo di meritarci una stanza degna del nostro meritato riposo: letto gigante con lenzuola bianche profumate di fresco bucato, doccia calda, aria condizionata e colazione inclusa!
Che quest’avventura continui!!
Federica
IL MIGLIOR POSTO DOVE ESSERE DERUBATI
24/01/2014 Nkhata bay, Malawi
All’intravedere il lago dalla cima delle colline il nostro entusiasmo sale al massimo, a capofitto ci precipitiamo giù per la discesa e non vediamo l’ora di essere nel tanto sospirato Malawi. Alla frontiera non devo nemmeno pagare per il visto come in tutti gli altri paesi e, un sorriso strappato alla bella e tenebrosa doganiera, mi riempie di aspettative positive per i prossimi giorni. Appena passato il fiume che demarca il confine, puff! scompaiono le macchine, non ci sono più camion. Un sacco di gente che va avanti e indietro a piede e una moltitudine di biciclette. Wow! E’ il posto perfetto per la bici, forse è il posto di cui avevamo bisogno. Per la strada tutti gentilissimi, sorrisi, pollici alzati e qualche bambino che urla il solito “Mzunghu” (uomo bianco). Costeggiamo il lago Malawi per qualche giorno assaporando un po di meritato relax lungo le sabbiose spiagge. La nostra meta però è più a sud e ci muoviamo con calma ma non troppa, dovremo cambiare le catene delle bici, riparare le borse bucate e un sacco di altre cose che richiederanno qualche giorno di bici in cavalletto. Per questo cerchiamo la spiaggia giusta. Scavalchiamo alte colline e godiamo della splendida vista, dell’ottimo cibo e della compagnia di sta bella gente sempre disponibile e gentile. Senza eccessive fatiche scendiamo dalle colline e finalmente arriviamo a Nkhata Bay, la nostra meta per i prossimi giorni. Già l’arrivo non è dei migliori, discutiamo inutilmente come due bambini su qual’è il posto migliore dove stare e questa tensione nell’aria tra di noi non ci da il ben venuto. Optiamo per un campeggio che ci richiede l’ultima ripida salita e alla fine riusciamo a piantare la tenda proprio a ridosso delle lievi onde del lago. Ci rappacifichiamo come due innamorati quali siamo seduti selle rocce vista lago e scendiamo in paese per una meritata cena ma ne’ abbondante ne’ saporita, per fortuna a poco prezzo. Risaliamo la ripida salita e ci rilassiamo un po, leghiamo le bici e ci facciamo un paio di birrette nel bar del campeggio. Al ritorno non ci posso credere, tenda aperta e telo strappato…merda! subito penso alle scimmie e al cibo magari lasciato dentro…invece no! non ci sono più le borse di Federica né le due borse frontali con le macchine fotografiche, GPS e tutto il resto. In questi casi l’incredulità è il primo sentimento che sfiora il cervello, seguito da rabbia e poco dopo dalla disperazione. Cazzo ci hanno fregato tutto. Federica sbotta di brutto, ha perso anche le mutande e sopratutto il suo computer con tutte le foto di questo viaggio e di tutti gli altri. Merda merda merda!…una miriade di pensieri cominciano a passare per la testa, e non riesco a focalizzare uno per agire e fare qualcosa. Chiamo i guardiani li in giro che allarmano altri e tutti ci mettiamo a cercare sulla spiaggia nel caso i ladri si fossero sbarazzati della refurtiva senza valore. Inebetito mi perdo a cercare tra l’erba alta a ogni tanto torno da Federica per tentare di dirle qualcosa per rasserenarla. Sfido chiunque a farsi venire in mente un pensiero sensato da dire in situazioni come questa. Da li a poco arriva Alice, la proprietaria del posto che rimane scioccata e dispiaciuta quasi quanto noi. Raduna i suoi lavoranti e li sparpaglia in giro per cercare meglio, i ladri non possono essere andati lontani. L’unica cosa che ci resta da fare è andare alla polizia a denunciare l’accaduto. Seguiamo Alice su per la collina al suo scassato pick-up. Prendiamo una lunga rincorsa per riuscire a saltare in strada e nel fare retromarcia un sacco di gente del posto salta sul cassone e c’accompagna dalla polizia. A quanto pare questa è una cosa che non succede tanto spesso visto il grande movimento di gente appena la notizia inizia a girare. Arrivati dalla polizia chiedo ai ragazzi della nostra scorta che se avessero mai notizie di dove possa essere finita la nostra roba, noi saremo disponibilissimi a ricomprarcela al mercato nero senza che la polizia sappia niente. Sembra che la cosa non sia tanto una sparata visto come diventano operativi subito. Davanti ad un poliziotto in tenuta bianca scriviamo su foglio bianco la lista delle cose che ci hanno rubato e ad ogni voce aggiunta un colpo al cuore. Le due macchine fotografiche, tutti gli obiettivi, il computer, giacche in gorotex e tutto per la bici. A lista stilata il maltolto ammonta a un bel po di migliaia di euro. Alice scrive per me la mia deposizione visto che se ci provo io col mio inglese rimaniamo qui fino all’alba. Ci spiegano come opereranno: alcuni setacceranno la spiaggia della baia mentre altri metteranno dei posti di blocco sulla strada che va a sud e su quella che va a nord. Il pericolo da scongiurare e che il ladro tenti di raggiungere la città di Mzuzu per tentare di rivendere la refurtiva. Alice ci riaccompagna al campeggio e sta volta un poliziotto viene con noi per analizzare la scena del crimine. Un classico, sono venuti dal lago in barca e hanno preso le prime cose che li sono capitate per mano. Ci spostiamo in un bungalow e trasciniamo in fretta e furia le nostre cose e ciò che rimane della tenda. Ma per che c’è successo questo? come è stato possibile? Mille sono le domande a cui è impossibile dare una risposta. Ci consoliamo immaginando come un ladro in questo piccolo villaggio possa ricavare qualcosa da tutto quel ben di dio che ha portato via. Ci sono rimasti tutti i caricabatterie e quindi macchine fotografiche, computer ecc. sono difficili da piazzare. Le borse impermeabili le avranno gettate e magari anche i vestiti che forse domani mattina troveremo sulla spiaggia trasportati dalle onde. Pensiamo a ogni ipotesi, anche di prendere un autobus e andare in città a Mzuzu facendo finta di cercare una macchina fotografica da comperare al mercato nero sperando che ci capiti per mano la nostra. Una volta analizzato anche la più cretina delle ipotesi iniziamo a pensare a cosa fare adesso. Torniamo a casa? continuiamo? e se si, come facciamo ad avere tutto quello che ci serve per tornare a pedalare. Subito penso all’irrinunciabile supporto di mio padre che a tal notizia avrebbe mosso mari e monti per spedirci il nuovo materiale. L’intera notte la passo pensando a chi chiedere per mettere insieme tutto quanto e poi farmelo spedire fino qua giù in Africa.
Al mattino ci trasciniamo a fare colazione sulla lunga tavolata del campeggio e tutti gli ospiti e sopratutto il personale ci accolgono in un abbraccio di supporto. Una cosa così non succedeva da un sacco di tempo e sono tutti immensamente dispiaciuti. Parliamo con lo staff su cosa possiamo fare e ci danno pieno supporto per il tempo che necessiteremo a rimetterci in moto e ripartire. Possiamo stare nel bungalow e far spedire qui la roba dall’Italia. Con Federica ci mettiamo a stilare la stessa lista fatta ieri sera al commissariato ma con affianco il modo più economico e rapido per recuperare il maltolto. Il nome di molti miei amici è accanto ad ogni cosa che ci serve, adesso non mi resta altro che contattarli tutti e vedere se sono disponibili a prestarci braghe, guanti, scarpe e maglie per ripartire. La cosa più complicata da recuperare ci sembrano le lenti a contatto della Fong che devono essere ordinate con qualche bel giorno di anticipo. Studiamo anche le clausole della nostra assicurazione per vedere se salta fuori qualche euro in più. Prima che ci sia servita la colazione arriva un folto gruppo di uomini in camicia elegante, sono tutti poliziotti e vogliono parlare con noi. Seduti in cerchio vogliono sapere cos’è accaduto nei dettagli. Ostrega! adesso ci sembra davvero una roba seria a sto punto. Il capo ci rassicura e ci spiega ancora una volta come stanno operando e si congeda dicendoci che in casi come questi abbiamo il 50% di probabilità di ritrovare la refurtiva. A noi ci sembra un po troppo ottimista ma ci fa ben sperare.
Torniamo ai piani per recuperare tutto e siamo anche in grado di farci tornare un timido sorriso. Ora devo solo trovare il modo migliore e più indolore che mai di dare la notizia a casa, sono però sicuro che mio padre si divertirà in tutta questa operazione di recupero materiale. Appena questo unico pensiero positivo svanisce sento urlare Alice, “hanno trovato la vostra roba, hanno trovato la vostra roba” salta, è più contenta di noi. Il ragazzo che ha preso la telefonata dalla polizia ci dice che hanno trovato qualcosa e che dobbiamo andare a riconoscere la refurtiva. Durante il viaggio in pick-up rivalutiamo il nostro entusiasmo e a questo punto ci basterebbero le borse e qualche altra cosa davvero indispensabile come i pantaloncini. Appena scesi uno ci fa cenno di seguirlo dentro una stanzino di cui la porta si apre a malapena da quanta gente c’è dentro. Un grossa valigia rosa è sopra un tavolo, lenzuola e vestiti d’ogni genere trasbordano ma sotto a tutto questo vedo il giallo inconfondibile delle scarpe di Federica. Non lo scorderò mai! sembrava di scartare i regali di natale, un poliziotto vede spuntare la fibbia della mia Cannon “che ne dici di questa?” La nostra gioia è incontenibile, accendo la macchina per vedere se va ancora e scatto mentre Federica prende in mano il suo prezioso computer incredula. La stanza è troppo piccola, ci invitano ad uscire e a mettere tutto per terra. Spostiamo maglioni, vecchie scarpe e saltano fuori i miei occhiali, il GPS, la macchinetta di Federica e tutti gli obiettivi. Tutti i suoi vestiti e persino le lenti sono stati ritrovati. Una cosa incredibile, la nostra felicità contagia l’intero corpo di polizia o forse è la loro soddisfazione a contagiare noi. Ricontrolliamo la lista della sera prima, mancano solo le due borse davanti,il mio Mp3, una cassa per ascoltare la musica e il conta chilometri comperato in Kenya che non mi era mai stato simpatico. Ci congediamo e corriamo a casa, per strada diamo la lieta notizia…tutti avevano saputo della nostra sventura della notte prima e ora sono compiaciuti per il lieto fine. Appena arriviamo tutto lo staff si distende in una risata liberatoria e finalmente l’aria di tensione che si respirava svanisce in un istante. Mamma che gioia. Sta storia ha dell’incedibile. Praticamente il ladro aveva sotterrato la grossa valigia con la nostra roba nel giardino di casa ma la polizia, insospettita dell’inusuale scavo ancora fresco, aveva ritrovato tutto a colpo sicuro.
Scendiamo al villaggio felici come non mai, per festeggiare mi faccio tagliare la barba e ci fermiamo a cenare in un ristorante con dell’ottimo cibo locale e birrette. In paese tutti sanno cosa è successo e che abbiamo trovato la refurtiva, sanno anche che la moglie del ladro è in carcere e che sono tutti sulle sue tracce. Gli abitanti della baia sono entusiasti del ritrovamento, sconosciuti ci fermano e si scusano per non essere riusciti a catturarlo, altri giurano vendetta se gli passa per le mani. Una solidarietà incredibile. Una piccola comunità così unita e onesta da farci sentire a casa e anche un poco commossi. Praticamente la notte prima la polizia aveva allertato un po tutti e ascoltato chi aveva visto o sentito qualcosa. E’ stato un massiccio lavoro di gruppo per aiutare due stranieri mai visti prima e non infangare la reputazione di questo magnifico posto. Ora abbiamo le nostre cose e siamo fiduciosi di riuscire a trovare anche le due borse davanti che in caso contrario compreremo su internet e ce le faremo spedire strada facendo. Alice è stata fantastica, ci ha accompagnato avanti ed indietro dal commissariato, triste e distrutta come noi la notte scorsa, e riaccompagnato felice ed entusiasta come una pasqua questa mattina. Visto come sono andate a finire le cose mi sento di dire che forse sta storia è un bene che ci sia successa. Abbiamo condiviso gioie e dolori con la gente del posto, sentito apprensione nei nostri confronti da perte di perfetti sconosciuti e gioito insieme ad un villaggio intero per il lieto fine.
Un grazie in particolare ad Alice e a tutto il suo staff.
Dino
NEL MEZZO DEL CAMMIN DI NOSTRA AFRICA
05/02/2014 Malawi, Cape Mc Clear.
Abbiamo più o meno 4000km al nostro attivo percorsi in quest’Africa di cui sapevamo poco, eravamo partiti sereni ma attenti ad affrontare il leggendario continente nero con tutte le sue bellezze e i suoi pericoli. Ad oggi dico che le aspettative erano sbagliate. Di tutti quei paesaggi da cartolina visti sui giornali nemmeno l’ombra, sono luoghi tanto magnifici quanto inaccessibili per viaggiatori come noi…li ci si va solo con i tour “grandi viaggi” o pagando un occhio della testa per entrare nei parchi con 4×4 affittata e guida. A noi c’è toccata l’altra Africa, quella di cui non vedi le foto nei depliant e che il turista non ne sentirà mai parlare, quella povera che lotta per sopravvivere tutti i giorni…a noi c’è toccata l’Africa on the road.
Sinceramente è stata dura consolare le nostre aspettative, per un periodo siamo stati addirittura affranti al limite da pensare di prendere un aereo e andare a pedalare altrove. Per noi è assolutamente necessario trovare quotidianamente l’energie e lo stimolo che ci dia la volontà di pedalare e sopportare questa grande fatica che tutti i giorni sopportiamo sotto un sole cocente. Nei viaggi passati tra l’Himalaya, le Ande o altri paradisi naturali, la forza ci veniva data dal paesaggio meraviglioso tutt’attorno a noi. Spesso con Federica ci siamo trovati a commentare la nostra commozione per un passo in alta quota raggiunto o per la scoperta di una valle incantata dopo una curva. Le meraviglie della natura sono sempre state per noi la benzina nelle gambe e ci hanno sempre spinto oltre con entusiasmo, a volte bestemmiando ma sempre regalandoci la vista di qualcosa di meraviglioso concessa solo a pochi. Beh! l’Africa non è stata finora così per noi. Posso garantire che gli ultimi 3000 km gli abbiamo pedalati con davanti agli occhi lo stesso identico paesaggio con qualche leggero spunto di verde quando ci trovavamo in cima alle montagne. Tutti i giorni le stesse cose, tutti i giorni la stessa strada, tutti i giorni nulla che ci faccia esclamare “Madonna!”. Con temperature oltre i 50°C siamo scivolati per tutta questa strada aspettando di stupirci ma nessuna vallata o tramonto ci ha colto di sorpresa, la monotonia ha dominato la dove volgeva il nostro sguardo. Anche qui in Malawi, se ripercorressimo la strada che abbiamo fatto due giorni fa, non ce ne renderemmo conto da quanto le giornate sono identiche una alle altre. Per due che pedalano in queste condizioni è dura, davvero dura; a volte ci è sembrato addirittura inutile. E quindi giunti a questo punto che fare? siamo quasi a metà del nostro viaggio e che si fa? Devo dire che qui ha avuto un ruolo fondamentale Federica che, dopo lunghe discussioni a volte anche dure, ha rinfrescato la mia vecchia maniera di pedalare per il mondo dandole una tinta nuova. Decine di episodi, che io non avrei mai fatto succedere, mi hanno dato gioia. Rattoppare qualche bambino per strada cappottato giù per un fosso mentre c’inseguiva per salutarci, provare ogni più strana forma di cibo che s’incontra lungo la strada, chiedere a qualcuno se vuole essere fotografato e far nascere così una “sagra” di bambini urlanti uno sopra l’altro per mettersi in posa, e altri episodi divertenti che discostano di parecchio dal mio modo di viaggiare solitario e silenzioso. Chi sa se avrei visto questa bella Africa senza Federica. Un viaggio può essere tale anche senza eclatanti montagne da oltrepassare o terribili condizioni atmosferiche da sopportare ma c’ho messo tutto sto tempo e un bel po di sofferenza per rendermene conto. Riflettendo molto sulla strada già percorsa mi viene naturale concludere che l’Africa per noi non è il Kilimangiaro, i leoni nel parco Serengeti o l’Isola di Zanzibar…per noi l’Africa e semplicemente un luogo nel mondo dove vivono gli africani. La gente!, é la gente c’ha spinto avanti, i loro sorrisi e la loro incrollabile serenità in questo mondo che non li considera. Per la prima volta nei nostri viaggi ci troviamo davanti ad una situazione tanto difficile quanto entusiasmante e nuova. Non ci stiamo più nutrendo di paesaggi mozzafiato ma della grandezza delle persone e della loro sincera ospitalità. Vediamo qualcosa che non si può fotografare ne catalogare, giorno per giorno siamo per villaggi in cerca di cibo o lungo i campi coltivati e stiamo con la gente, con le donne e i bambini che vivono qui. Diversi sono i saluti che abbiamo imparato da paese a paese ma, che mi ricordi, non c’è mai stato nessun che non ci abbia salutato o fatto qualche cenno amichevole. Questo paese c’ha fatto cambiare passo, di non guardare solo per emozionarsi ma ascoltare e fare tesoro delle storie della gente. Ad oggi se guardiamo indietro raramente ci ricordiamo di qualche bellissima spiaggia o un maestoso tramonto, ma del villaggio di pescatori che c’ha aiutato a prendere il ladro, del giovane cuoco che c’ha raccontato l’Immagine di Ghaedafi vista dall’Africa, delle pesanti pacche sulle spalle delle donnone Tanzane alla Fong chiamandola “sister”, delle chiacchiere fatte con chiunque ad ogni occasione e di altri mille bellissimi incontri. L’Africa è davvero un luogo diverso che semplicemente t’impone di cambiare.
Dino
CAMBIO PASSO
20/02/2014 Lusaka, Zambia.
Dalle dolci sponde del lago Malawi risaliamo su per ripidissime montagne e vedere la Fong sempre la davanti giuro che un po mi sta sulle palle, ma mi consolo dicendo che sono stracarico e che sono un diesel fatto per le lunghe distanze ma è una magra consolazione. Siamo nel mezzo della stagione delle piogge e assicuro che c’e ne siamo accorti di brutto. Vien giù a secchiate e senza darci tregua. Le nostre attrezzature alpinistiche anti acqua sembrano inutili, le grosse gocce si spingono a forza tra le cuciture e siamo bagnati fradici ogni giorno. Di bello c’è che la pioggia rende il paesaggio decisamente diverso anche se rallenta la nostra corsa verso Lilongwe la capitale del Malawi. Siamo costretti a trovar riparo per non essere sommersi dalle onde alzate dai camion che ci sfrecciano affianco ma la pioggia non cambia la sua pesante intensità. Arriviamo in città con qualche giorno di ritardo e approfittiamo per lavare tutta la nostra roba zuppa e puzzolente. La capitale sembra più la periferia di una zona industriale del nordest italiano ma senza però la zona industriale. Ci sono un paio di supermercati ben forniti, delle catene di fast food sudafricane e un enorme mercato di baracche lungo il fiume. C’ingegnano per costruire la borsa davanti porta macchina fotografica rubataci al tempo in Nkhata Bay e con una scatola frigo porta birre, un pezzo di rete metallica e abbondante fil di ferro ci vien fuori un buon lavoro. In città speravamo di incontrare dei viaggiatori per avere informazioni sulla strada per lo Zambia ma ahimè sembriamo gli unici stranieri. Cerchiamo mappe o guide ma quei ciclisti che son passati di qui prima di noi non hanno lasciato traccia. Fino a che un giorno nel garage dell’hostello dove stiamo intravedo due vecchie moto con targa italiana. E vaiii! Andrea e Luciano, entrambi di Torino e coscritti di mio padre, stanno risalendo il continente in sella a due monocilindriche vecchie di vent’anni. Grandi! con borse fatte in casa e telai saldati alla buona stanno compiendo un’avventura che i più azzardano solo con nuovissime BMW e mille altri costosi castighi. Le loro informazioni sulla prossima strada sono preziosissime e le loro dettagliate mappe un colpo di culo inaspettato, I’entusiasmo poi che ci trasmettono è a dir poco rinvigorente e ci sentiamo pronti ad affrontare un’altro nuovo paese. Dopo una cenetta assieme ripartiamo verso il confine, finalmente con tutti i nostri vestiti puliti e la mia nuova scatola per la macchina fotografica. Chipata è la prima grande città al di là della frontiera e facciamo rifornimento per i lunghi giorni a venire. Cibo e tanta acqua per affrontare una strada dove sulla mappa non si vedono tanti villaggi ma decine e decine di colline da scavalcare. E così è, salite anche non tanto dolci, poi discese e subito su di nuovo, che palle!. Non c’è praticamente nessuno in giro, intravediamo solamente alcuni villaggi nascosti da verdissima erba alta più di due metri ma fondamentalmente siamo soli. Raggiungiamo solo a tarda sera il primo paesetto e ci pare un dono divino una stanza pulita e una doccia a secchiate. Per mangiare è un’altra roba, in sto posto non ci sono ristoranti ma ci arrangiamo in un piccolo supermercato dove far sorridere le commesse ci pare più difficile del solito. La strada continua su e giù e credo che all’unanimità io e Federica possiamo dare a questo tratto l’oscar della noia. Raramente troviamo un baracchino dove vendono qualcosa da bere, non hanno la Coca Cola ma ci accontentiamo di bibite gassate locali dalle quali traiamo una bomba calorica indispensabile per spingere sui pedali. Attorno a noi non c’è più il solito caloroso gruppo di bambini sorridenti e curiosi ma una scomposta folla di ubriachi storti già di mattino presto. La birra di mais qua va per la maggiore e, visto il prezzo ridicolo, è il passatempo preferito degli uomini di questa parte di Zambia. Me la vedo la Fong su per queste valli da sola con attorno solo uomini pesantemente sbronzi, ma con me attorno fanno i buoni. A tappe forzate ci spostiamo velocemente per raggiungere ogni sera un villaggetto dove trovare acqua per l’indomani e qualcosa da mettere sotto i denti. Sta sera, ad un posto di blocco, ci consigliano vivissimamente di non continuare oltre perché sono stati avvistati dei leoni e di giorno è più sicuro. I poliziotti ci offrono la loro acqua e ci possiamo così cucinare un decente pranzetto in busta. La notte poi scorre lenta e insonne grazie a tutti i grossi camion che di qui transitano e vengono controllati. La mattina dei leoni neanche l’ombra e ci ritocca questa infinita e noiosa strada neanche per un istante pianeggiante. E’ già da un po che questo viaggio non è baciato dalla mia solita fortuna sfacciata ma ora mi sembra che si esageri un po. Le borse dietro cedono rovinosamente e si spaccano i ganci di ancoraggio al portapacchi. Danno non da poco ma che riesco a marginare cucendo la dura plastica con del fil di ferro. L’indomani carico il mio serbatoio extra d’acqua perché per la strada non ne troveremo e dopo pochi chilometri sento il mio portapacchi barcollare per il peso del carico. Ma “porca puttana!” I filetti delle viti hanno ceduto e se non riparo anche questo guaio non riesco a continuare. Quel genio di Bressan, il padre della mia Terranova, ha pensato proprio a tutto e mi ha saldato dei supporti extra sulla bici. Sostituisco le viti distrutte dalle vibrazione e rinforzo l’attacco con delle fascette d’acciaio. Si riparte!
La gente che non è ubriaca è la solita meravigliosa gente d’Africa che ci accudisce al massimo delle loro possibilità solo che più timida al sorriso e poco avvezza alla risata. Ci sentiamo alla grande se non facciamo caso che siamo qui in bici e che la strada di domani sarà identica a quella di oggi. Prima di raggiungere Lusaka capitiamo per puro caso in un alberghetto dove una birra fresca e finalmente cibo decente ci donano nuovo vigore. Alla capitale ci arriviamo con facilità e ben felici di essere di nuovo nella civiltà dopo quasi una settimana su quelle desolate colline. Subito tanta gente e tutti i lussi del mondo; internet, centri commerciali e un indimenticabile ristorante indiano che ci vede clienti per pranzo e cena tutti i giorni. Diamo un po di riposo ai nostri doloranti muscoli e approfittiamo per rimettere a nuovo le bici. Invertiamo anche i copertoni e tento inutilmente di svelare quell’arcano mistero che ha fatto bucare un sacco di volte le mie ruote e nemmeno una volta quelle di Federica. Rilassati e con le meccaniche della bici che scorrono silenziose come nuove prendiamo la rotta verso Sud con destinazione Livingstone per visitare le leggendarie Cascate Vittoria. La strada ci pare un sogno, siamo cullati da un’impercettibile discesa e ci sono abbastanza paesini sparsi sulla nostra rotta tanto da non dover caricarci di cibo e acqua. Tutto sembra perfetto fino a quando la nostra reciproca voglia d’indipendenza ritorna a galla. Entrambi nasciamo viaggiatori solitari e, come animali in cattività, non possiamo reprime il nostro istinto primordiale. C’è del grigio malumore e decidiamo di dividerci con qualche giornata di distanza. Madonna che toccasana. Già dopo poche pedalate quella pazza mi manca già di brutto, in poche ore la memoria dei litigi si dissolve e torno io com’ero nato molti anni fa. Solo sulla bici e con pensieri solo miei. Dopo pochi giorni e per una straordinaria performance della Fong, che si spara 170km in una giornata, ci ritroviamo e riprendiamo come nuovi a pedalare assieme. Dolcemente raggiungiamo Livingstone per tuffarci nel relax di un bell’hostello pieno di turisti che attendono la prossima corsa per l’ennesimo parco. Le gambe sono apposto e non siamo per nulla stanchi, l’indomani visitiamo finalmente una natura a portata del nostro portafoglio. Raggiungiamo le Cascate Vittoria in bicicletta e per 20$ siamo dentro al parco. Bommm! Un frastuono assordante ci accoglie e tra le fronde degli alberi appare la maestosa cascata nel massimo della sua forza. In questa stagione lo Zambesi è rigonfio d’acqua che cade in un’istante da centinaia di metri alzando un’immensa nuvola d’acqua. Avvicinarsi alla cascata significa catapultarsi in un microclima da foresta pluviale amazzonica con quest’irreale pioggia che non è altro che schizzi di Zambesi che ci cadono addosso dall’alto. Maestosità e potenza! ecco uno di quei luoghi citati nei diari precedenti e di cui avevamo drammaticamente bisogno.
Dino
CHE SORPRESA QUESTO BOTSWANA!
08/02/2014 Maun, Botswana.
Un’altra frontiera, un altro timbro con una data memorabile sul nostro passaporto, un nuovo traguardo, da poco il conta chilometri è scattato sulla cifra tonda dei 5000 percorsi finora e siamo giunti in Botswana, curiosissimi di scoprire questo paese molto più vicino al Sud Africa che all’Africa nera.
Kasane, nell’estremo nord-est del paese è il primo centro che incontriamo e la differenza con lo Zambia è subito netta ed evidente.
Non siamo più i “muzungu” che arrivando spaesati in paese attirano l’attenzione di tutti, dai curiosi adulti seduti all’ombra degli alberi ai branchi di vivacissimi bambini, qui l’uomo bianco si è insediato da molti anni per via delle preziose miniere e non siamo quindi accolti con lo stesso stupore dell’africa orientale e centrale.
Kasane è ben organizzata con fornitissimi supermercati dove qualsiasi tipo di frutta e verdura proveniente dal Sud Africa si presenta incellofanata dentro vaschette di polistirolo, insegne giganti dei bancomat dove prelevare denaro da spendere in ogni dove. I cinesi anche qui vendono nei loro negozi disordinati di tutto e di più, gli indiani possiedono i ristoranti e i bianchi gestiscono enormi negozi di edilizia.
Kasane è famosa anche per essere la zona di partenza per il parco nazionale Chobe e quindi gip aperti col tettuccio di tela, gonfi di turisti loffi, ritornano al tramonto nei costosissimi lodge, dove mangeranno pizza o hamburger laidi di salse.
Noi ne approfittiamo invece per fare una scorta quasi esagerata di cibo, ma la mia paura di non averne abbastanza, ma soprattutto la paura del Dino di sopportare la mia ira da fame, fa si che non badiamo al peso delle borse. Cereali, latte in polvere, biscotti, pasta, zuppe knorr, nuttella, pane, tonno e addirittura maionese appesantiranno le bici ma alleggeriranno il nostro umore per i prossimi 800 km prima di arrivare a Maun e al prossimo supermercato.
Il giorno seguente, in compagnia del nostro nuovo amico tedesco Uli, incontrato sulla sua bici in Zambia e con l’umore al top ci rimettiamo in strada in attesa di incontrare gli elefanti che continuamente vengono rappresentati nei cartelli stradali ogni 10 km. Non pedaliamo molto ed ecco che a pochi metri da noi una mamma col suo piccolo ci fanno sbarrare gli occhi e tirare un sospiro di stupore! Poco dopo ricompaiono nella nostra avventura i colli lunghe delle giraffe e ancora un altro elefante e un altro ancora…questa volta però è grande, anzi enorme e troppo vicino alla strada. Rallentiamo e Dino mi fa cenno con l’indice sulla bocca di non fiatare. Gli elefanti non vedono bene, ma ci sentono benissimo, e per quanto siano delle creature spettacolari, che desidero immortalare con la mia nikon, sono pur sempre pericolosi! Cerco silenziosamente di estrarre la macchina fotografica, ma il pachiderma si accorge di noi e mi blocco nel mio gesto. Inizia a sventolare le enormi orecchie. Oh oh!!! Dino mi fa cenno di pedalare il più veloce possibile, ora che l’elefante ci sta venendo incontro. Merda merda merda…il cuore inizia a pompare tutto il sangue che ho e la mia adrenalina mi fa spingere a tutta forza sui pedali…via via viaaaaaa!!!!!!! L’elefante ha solo voluto farci paura, ma fortunatamente non ci ha rincorso per molto, altrimenti non avremmo avuto assolutamente modo di scappare. Mezzo chilometro dopo raggiungo Dino che pedalava velocissimo continuando a guardarsi indietro…io, ridendo come una matta, sono divertita come una bambina alle giostre!!
Le giornate sono piene, tante ore sulla bici pedalando per centinaia di kilometri su strade piatte come mai abbiamo trovato finora, sotto il sole cocente, per poi essere rinfrescati da impagabili scrosci di pioggia di questa stagione che ormai sta per finire. Per alcuni giorni siamo stati anche frenati brutalmente dal vento, ma non ci ha mai fatto cambiare i piani. Giornate così, accompagnati da elefanti, antilopi, scimmie, giraffe separano un piccolo centro abitato dall’altro dove quello che si trova è solo una stazione di servizio utile per fare rifornimento di acqua e cibo. Lungo queste infinite strade non un’economica guest house, dove farsi semplicemente una doccia, ma solo bellissimi e costosissimi resort vicino ai parchi. Fino ad ora abbiamo sempre trovato facilmente abbordabili alloggi, dove passare la notte, in Etiopia dormivamo per 2 euro, in Tanzania c’erano rest-house ogni 30 kilometri, nella turistica Malawi, avevamo solo l’imbarazzo della scelta, ma ora nella selvaggia Botswana, il campeggio libero è per noi l’unica soluzione, il che rende questo viaggio ancora più avventuroso e pericoloso allo stesso tempo, dato che mettere giù la tenda da queste parti vuol dire fare i conti con gli animali feroci quali iene, rinoceronti, elefanti, leopardi e ovviamente il temuto leone. Quando verso le 5 del pomeriggio il sole inizia ad accendersi per dare inizio allo spettacolo del tramonto è per noi l’ora più piacevole per pedalare perchè fa meno caldo e questa luce rende la savana ancora più suggestiva, ma è anche il momento per guardarsi attentamente attorno per cercare il posto più adatto dove passare la notte. Dev’essere un posto lontano dalla strada e da occhi indiscreti, ma non troppo inoltrati per non invadere il regno degli animali. Alla presenza dell’uomo possiamo cercare di difenderci, ma davanti all’istinto di una belva saremmo totalmente inermi.
Uno di questi tardi pomeriggi, il nostro amico Uli avvista una zona piana poco lontano dalla strada, nascosta da rovi e cespugli, vicino ad una pozza d’acqua. Wunderbar! Esclama lui tutto orgoglioso! Dino ed io lo seguiamo spingendo le bici per il sentiero dissestato e sabbioso per perlustrare la zona e accertarci che sia sicura ma, mano a mano che ci avviciniamo, disordinate impronte di animali ci fanno rendere conto che non siamo i primi ad aver scoperto il posto…segni sulla sabbia di zampe con artigli profonde svariati centimetri, grandi come il palmo aperto della mano di Dino, da una parte, altre molto più grandi e profonde che si avvicinano al alla pozza ci fanno calare l’entusiasmo di aver trovato il posto dove finalmente fermarci. Dino non serve che si esprima a parole, il suo sguardo fa intendere chiaramente che è fuori discussione correre un rischio del genere e non si discute molto. Solo una cosa dice: Oh ragazzi qui in Africa non siamo più i primi nella catena alimentare!! E senza discutere stiamo rispingendo le bici verso la strada.
Confesso che c’è qualcosa di primordiale in me che mi spinge a correre sempre il rischio e io a differenza di Dino nel mio più profondo voglio vederlo il leone!
Quella notte abbiamo poi trovato un posto apparentemente più sicuro, ma mentre i due uomini dormivano in tenda beatamente io ho sentito l’inconfondibile ruggito sebbene fosse lontano. Pura adrenalina!!! Buona notte Africa!
Federica
Bravissimi. Molti complimenti per il viaggio e per il racconto!
Ciao Luigi