Tibet in bici

 

IN PARTENZA

3/08/2007

Manca poco oramai, anzi troppo poco. Gli antichi greci dicevano che per un viaggiatore il viaggio più lungo è quello sulla soglia di casa, e infatti è da mesi che sto preparando in ogni minimo dettaglio questa spedizione ma non sono riuscito ancora a ultimarne i dettagli e il tutto è un po’ logorante……..Mille cose devono risultare perfette affinché questa avventura prenda il via; prima di tutto il prototipo di bicicletta che il mio amico e sponsor Roberto Bressan sta’ perfezionando, lo stiamo testando giorno e notte su ogni terreno e con ogni carico; sto studiando un modo per entrare in Tibet illegalmente cercando di eludere i controlli cinesi, questo comporta l’arrivo a Hong Kong per il visto cinese e poi svariati mezzi di trasporto per raggiungere l’altra estremità della Cina da dove inizierò a pedalare; devo imparare ad usare tutte le strumentazioni video che mi porterò dietro e creare dei supporti che mi permettano di riprendermi anche nelle situazioni più estreme. Tutto questo fa parte della vita dei viaggiatori e non oso chiedere di meglio, più è dura e complicata, più ha sapore e soddisfazione.

Se tutto andrà bene e le motivazioni non vacilleranno dovrei attraversare tutta la Cina e il mitico Tibet. E’ buffa la consapevolezza che quando tornerò fra parecchi mesi non sarò più lo stesso di adesso, le cose che vedrò, le esperienze che vivrò e le persone che incontrerò cambieranno indelebilmente il corso della mia vita e mi piace tentare di immaginare cosa sarò quando avrò attraversato gli sconfinati oceani di saggezza di questi luoghi. Viaggiare è la mia migliore forma d’essere e spero in vita di incontrare tantissimi sognatori come voi………….fate la zaino, andate dove non siete mai stati……ci vediamo là.

China

HONG KONG

18/08/2007

Una grande metropoli incasinata e appiccicosa sembrerebbe appena arrivati, ma sotto sotto c’e’ quell’Asia a me tanto cara. Adesso comincia il bello dell’avventura e la parte più difficile. In qualche modo dovrei avere il visto cinese per sei mesi entro lunedì, poi ho prenotato un volo per Urunqui dall’altra parte del paese, ora non mi resta altro che trasportare il mio pesantissimo scatolone all’aeroporto di Canton e pregare in ginocchio che me lo carichino sull’aereo. Da Urunqui poi in qualche maniera arriverò a Khasgar da dove si incomincia a pedalare. Vi assicuro che trascinare uno scatolone di trenta chili sotto un caldo del genere non e’ cosa facile e per di più nessun taxi o autobus te lo carica perché troppo ingombrante, mi inventerò qualcosa stanotte. Nel frattempo non devo far altro che aspettare curiosando in giro, andando a cercare tutte quelle migliaia di cose che ignoro e non conosco, sbirciare dentro quei vicoletti ai lati delle enormi vie trafficatissime scavate come canyon dentro pareti di grattacieli color cristallo.

Tibet

SI PARTE

23/08/2007

Arrivare fino a Khasgar con la mia grande e pesante scatola di cartone non e’ stato un gioco da ragazzi. In metropolitana fino all’aeroporto di Hong Kong, poi in autobus fino al confine cinese; dopo un’approfondito controllo passo su un’altro bus che mi porta fino all’aeroporto di Shanzen da dove mi imbarco per Urumqui. Anche qua’ mille casini per la bici e pago in più. Arrivato a destinazione un taxi mi svena per portarmi in centro città e l’indomani monto finalmente il mio mezzo perché nessuno mi vuole portare fino alla stazione dei pullman. Pedalo per ore fino a che non la trovo e butto su finalmente tutta la mia roba e crollo in una cuccetta. Il giorno dopo sono a Khasgar. Tra visti e mille casini ho impiegato una settimana e un bel po’ di soldi per iniziare la mia magica avventura ma ne vale la pena senza dubbio anche se non lo rifarei per niente al mondo. Questa grande città e’ stata per millenni la tappa obbligatoria di tutte le carovane da e per l’Asia. In quest’oasi alle porte del deserto del Taklamakal si sono incontrate le grandi correnti filosofiche dell’islam e del buddismo; di tutta questa trascendenza ora rimane una metropoli di grattacieli e centri commerciali con un immenso groviglio di autostrade tutt’attorno. Devo dire che me l’aspettavo diversa ma un indelebile segno di un punto di giunzione tra più mondi lo si ha vedendo le innumerevoli etnie che vi abitano e le diverse lingue che vi si parlano. Uiguri, thaggiki, pachistani e infine cinesi danno alla città un’aspetto inconsueto e salta immediatamente all’occhio che quest’ultimi non sono affatto ben accetti in questa terra. Durante la Cina di Mao numerosissime famiglie han (cinesi) sono state inviate in queste terre di confine per colonizzare questo importante pezzo di mondo così vicino alla Russia e ricco di risorse naturali. Strategie repressive contro i popoli che vi abitano sono tutt’oggi in atto e tutte le cariche statali e i lavori più dignitosi sono in mano ai cinesi. L’integrazione non e’ nemmeno auspicabile per questa ragione della Cina che se non fosse per la enorme statua di Mao nella piazza sembrerebbe una continuazione del Pakistan e del Kyrgistan.

Per quel che riguarda la mia pedalata mi sto attrezzando al meglio e rifornendo di provviste di ogni genere, cosa fondamentale sto’ acquisendo il maggior numero di informazioni possibili sulla strada da fare e dove stare più attento alla polizia, sembrerebbe che c’e la possiamo fare.

Tibet

SOPRAVISSUTO

15/09/2007

I primi giorni dopo che ho lasciato Khasgar sono scivolati lisci sull’asfalto e fra decine di villaggi uiguri (l’etnia che popola la regione dello Xinjiang), l’unico inconveniente e’ stata la tenda difettata a cui mancavano fondamentali cuciture che ho rimediato da un esperto sarto. Il mio primo pensiero e’ stato quello di eludere i posti di blocco lungo la strada e per fare ciò ho passato due grossi villaggi al mattino presto col buio mentre tutti dormivano non considerando il fatto che da qui’ in poi avrei trovato pochissimi altri luoghi dove poter comperare del cibo. La strada asfaltata e’ finita dopo tre giorni per lasciare il posto a un’orrenda pista tutta buche e sassi tanto da dover pedalare anche in discesa. Ed ecco le salite; giornate intere alla velocità minima consentita dal principio fisico per cui la bici rimanga in equilibrio. Tremila, quattromila metri. Il respiro diventa sempre più affannoso e la fatica insopportabile. Mi fermo ogni duecento metri verso i valichi più alti, un po’ spingo la bici e un po prendo lunghe pause. Sento il sangue denso come miele scorrere nelle tempie pulsanti e la testa mi comincia a fare un male cane, lo so’ e’ l’altitudine e spero che perdendo quota le cose miglioreranno. Arrivo stremato una sera in un villaggio di tre baracche che si chiama Mazzar a quota 4300m, oggi ho valicato il mio primo passo sopra i cinquemila metri dopo una settimana passata sui pedali, finalmente mangio un po’ di riso e dormo per terra ma al caldo. Gentilmente mi vendono un po’ di viveri e riparto verso il Tibet. Ora la strada e’ sempre in condizioni più’ pietose, le vesciche sul sedere mi obbligano a fermarmi spesso; davanti a me l’imponente catena del Karakoram mi sovrasta mentre io percorro il fondo di una delle sue vallate più profonde. Adesso incominciamo a fare i seri e ci si alza notevolmente , sono partito in pantaloncini corti; adesso pedalo col piumone a -10 gradi fin che non spunta il sole da dietro l’Himalaya. Mi sento acclimatato per bene, oramai sono dieci giorni che sono qua’ su e ho superato numerose volte passi a cinquemila metri, la fatica pero’ e’ sempre la stessa e ci si mette anche il tempo a farmi impazzire. Tutte le sere intorno alle sei si alza un vento micidiale e si mette a nevicare, pedalare diventa impossibile e tantomeno cercare di montare la tenda, l’unica e’ aspettare rannicchiato sotto la bici che si calmi un po’ e sperare che succeda prima che cali il sole che muoversi qui’ di notte e’ un suicidio. L’acqua congela nelle bottiglie che tengo dentro alla tenda, il cibo cominci a scarseggiare e troppi villaggi che nelle mappe dovrebbero esserci li incontro in macerie. Comincio davvero a preoccuparmi e le tempeste di neve alla notte non mi rassicurano per niente, pero’ svegliarsi al mattino e vedere tutto innevato e segnare per primo la lunga spianata ,che dovrebbe essere la strada, non ha prezzo. Incontro da giorni solo qualche camionista che mi sorride dall’alto della cabina. Se un camion si rompe qua ,su prima di vedere qual’e’ il problema, tirano giù la ruota di scorta e gli danno fuoco per scaldarsi, poi aspettano un’altro camion che li porta via e abbandonano qui’ il mezzo per ritornare giorni dopo con pezzi di ricambio. Per più volte ho montato la tenda a ridosso di quest’ultimo unico riparo dal vento in questo deserto gelido. Il cibo devo razionare e non e’ una bella cosa quando chiedo al mio fisico sforzi sovrumani per spingermi sempre più in alto e poi per incontrare l’acqua devo fare lunghe deviazioni fino ai lontani letti quasi asciutti dei torrenti. Mi do’ dell’idiota per non avere portato con me viveri a sufficienza ma oramai siamo qui’ e studio le prossime tappe per arrivare dove c’e’ un po’ di civiltà’. Troverò gente solo dopo il confine tibetano ma prima devo superare il deserto dell’Aksai Chin, un pezzo di Ladakh indiano espropriato dai cinesi senza che nessuno se ne accorgesse per costruirci sopra questa strada di immensa importanza strategica…uno dei luoghi più remoti della terra. Tre giorni a 5200m in un paesaggio mozzafiato che mi ripaga di tutte le mie fatiche, una pianura dai colori intensi circondata da altissime montagne innevate. Il colore dell’oro mi viene a trovare ad ogni tramonto e le lunghissime ombre delle cime disegnano miraggi di dune sulla piana infinita. E’ insopportabile la fatica a questa quota e, piegato sul manubrio, prendo lunghissime pause per recuperare. Ecco l’ultimo passo, sono finalmente arrivato in Tibet, dopo mille fatiche e sedici giorni sono appena all’inizio del mio viaggio. La giù un villaggio che sembro non raggiungere mai, nessun ristorante ne letto ma degli operai che stanno sistemando la strada mi danno ospitalità e cibo dentro la loro tenda e non c’e’ verso di ricompensarli. Mangio da esplodere, e finalmente sazio manco ci penso alla tormenta di neve che congela tutto fuori dalla mia tendina che ho montato poco lontano dal villaggio. Ancora un’altra mattina gelida ma il solo pensiero di essere finalmente nel paese tra le nuvole mi da la forza di pedalare. Dopo alcuni valichi ancora sopra i 5000m comincio piano piano a perdere quota, il mio corpo ne trae un immenso giovamento e riesco a percorrere più chilometri in un giorno. Incontro qualche villaggio e la gente gentilissima mi vende un po’ del loro cibo, non sono più in carestia e sapermi con le borse colme di riso mi da una certa temerarietà e forzo un po’ di più sui pedali per recuperare qualche giorno tanto alla sera mi abbuffo di mangiare. Laghi cobalto, distese verdissime, montagne velate di bianco, il Tibet e’ come sulle cartoline e io ci sono nel mezzo. Essere dove si e’ segnato da lungo tempo ti fa sentire fortunato, vivere il proprio sogno da un senso di felicita’ ineguagliabile. Sapere poi quanto ti e’ costato trasforma tutto queso in una sorta di adrenalina che ora scorre dentro come forza vitale…..e pensi “e adesso chi mi ferma più” Neve, forature, pantano e freddo…ho passato di peggio e vado avanti, fra pochi giorni sarò ad Ali la capitale della provincia e potrò dare notizie di me a casa. Adesso devo solo fare molta attenzione a non farmi vedere dalle pattuglie dell’agenzia nazionale di sicurezza il PSB. Dalle informazioni che ho trovato su internet molti che hanno intrapreso il mio stesso viaggio sono stati beccati in questa zona ed espulsi dal paese. Lascio la strada principale e seguo da lontano i piloni del telefono, se vedo polveroni alzati da qualche mezzo in scruto l’orizzonte col binocolo che ho fregato a mio padre e se e’ una jeep mia eclisso tra le dune sperando di non essere visto. Ma la fortuna e’ dalla mia e arrivo nel paese di Rutog senza problemi e mi catapulto nel primo alberghetto che trovo a nascondere la bici. Un letto, dell’ottimo cibo e un telefono per chiamare casa e dire che c’e’ l’ho fatta. Sono riuscito a distillare la felicita’ dalla fatica fisica e mentale. All’alba non mi sembra vero, davanti a me la strada diventa nera nera, asfalto! In una lunga giornata di 150km arrivo nella capitale, domani sarò nell’ufficio del PSB a spiegargli come cavolo ho fatto ad arrivare fin qui’ e mi rilasceranno il visto per continuare il mio viaggio. Diciotto giorni e 1500km di fatica, freddo e lucidi pensieri resi trasparenti dalla vita ridotta ai minimi termini, decantata dalle inutili paturnie della vita comune. Tutte le riflessioni che ho fatto la su credo che un po’ migliore mi abbiano reso o almeno lo spero. Adesso devo solo recuperare i chili persi e studiare le carte verso la mia prossima meta…a presto.

Tibet

E IL PEGGIO DOVEVA ESSERE PASSATO

08/10/2007

C’e’ uno strano rapporto tra il cibo e il nostro cervello, c’e l’ho abbiamo fin dai primordi della nostra specie. Ad Ali ho fatto una terribile indigestione visto che avevo patito la fame nei giorni precedenti e ho ritardato la mia partenza di qualche giorno. Per qualche chilometro ho pedalato su un asfalto nuovo di zecca, poi ha lasciato il posto ad un infinito cantiere stradale che ha la pretesa di pavimentare tutta la strada fino a Lhasa. Camion, ruspe e buche dappertutto. Polvere nei polmoni fino dall’alba e ho imparato a capire il vento per non farmi trovare nella parte sbagliata della strada e farmi soffocare da nuvole dense che mi tolgono il fiato. Pedalare in queste condizioni diventa impossibile, mi allontano quindi verso l’infinita steppa tenendo come riferimento le enormi colonne di polvere di quel girone dantesco. Sono più lento ma ci sono meno buche e la bici me ne e’ di sicuro grata, sono stracarico e il timore che il cerchione dietro ceda e sempre nei miei pensieri. E’ incredibile quanti animali popolano queste sterminate pianure, dalla strada sono praticamente invisibili ma dalla mia nuova rotta li vedo vicinissimi e poi non mi sentono arrivare. Non scappano più’ di tanto, qui’ non sono mai stati cacciati; gazzelle, cavalli selvatici, cervi e ungulati dalle corna dalle mille forme. Qualche volta ho piantato il campo al loro cospetto ma più di tanto la mia presenza non li ha mai disturbati. I lupi pero’ hanno alquanto inquietato me ma mi sono subito reso conto che la loro era più curiosità che fame quella mattina che mi hanno svegliato gironzolando attorno alla mia tenda. Finalmente lascio la valle per salire al paese di Dharcen sovrastato dall’inconfondibile sagoma bianca del leggendario monte Kailash. E’ indubbiamente la montagna più sacra dell’Asia, venerata da quattro religioni e’ considerata il centro dell’universo. Dai suoi versanti nascono quattro fiumi importantissimi che portano la vita in questa parte di mondo. Secondo la fede buddista fare il pellegrinaggio attorno al Kailash purifica una delle vite passate così che il proprio karma migliori. Parto di buon ora anch’io come i tanti fedeli. Il tempo non e’ dei migliori e la vetta compare rare volte, pianto il campo sotto l’impressionante prete nord e l’indomani valico il passo di 5600m eseguendo alla lettera tutti i vari rituali che mi insegnano i tibetani. Per un momento butto alle ortiche la mia ottusa razionalità occidentale. C’e’ un punto, sotto la parete est, dove i buddisti e gli indiani lasciano una goccia di sangue per stare ad indicare il passaggio ad una nuova vita o per lasciarsi alle spalle qualcosa; ho preso il mio coltellino e due gocce di sangue su una pietra sacra sono sicuro che mi abbiano davvero aiutato a passare oltre ad una situazione che fin qui’ mi ha perseguitato. La mia lunga pedalata riprende verso il lago sacro Manasarovar e poi di nuovo verso ovest e per mia fortuna i colossali lavori di pavimentazione fin qui’ non sono ancora arrivati. Ricominciano i valichi oltre i 5000m e il tempo si guasta. Da prima un forte vento contrario che non mi lascia proseguire e poi incomincia a nevicare di brutto. Per una settimana non vedo il sole e il forte vento mi spara in faccia cristalli di neve presi dalle vette tutt’attorno. La strada e’ un’inferno di pantano e buche, piantare il campo in un posto riparato e’ un ‘impresa, dopo una giornata sotto questa neve pesante sono bagnato fino alle ossa e non c’e’ modo di asciugarmi. La tenda fradicia appesa alla bici pesa cinque volte tanto e mi e’ impossibile cucinare nelle pause durante il giorno. Il più delle volte mi sfamo con biscotti e salsicce crude, impazzisco la notte a sentire che la neve continua a cadere sulla mia tenda, all’alba il rumore e’ lo stesso e il morale ne risente. Finalmente un pomeriggio il vento si affievolisce, la neve non cade più di taglio e le jeep dei turisti hanno spianato gli infiniti dossi della strada. La notte il cielo si ridipinge di stelle, ha smesso di nevicare. La mattina c’e’ il sole e finalmente la mia tenda si asciuga, la mia giacca e i miei guanti anche; non fa più freddo e verso mezzogiorno il sole risplende come non mai sopra la mia testa. Rinfrancato dalla situazione volta a mio favore spingo sui pedali per arrivare al villaggio di Saga dove una doccia calda mi aspetta. Nel frattempo accampo sulle rive di uno spettacolare lago, sulla cima di incredibili dune di sabbia e vengo ospitato da una famiglia tibetana e la nonna mi rimbocca le coperte prima di addormentarmi. Arrivo a Saga quando il sole e’ già dietro l’Himalaya, i bambini accorrono a salutarmi e incrocio finalmente lo sguardo con qualche turista, fino ad ora i loro volti li intravedevo dietro alle macchine fotografiche dentro alle jeep che tentavano di fotografarmi come un animale raro senza proferir parola nonostante della stessa razza. Una doccia pubblica ti rida’ la vita e un buon piatto di tukpa (la zuppa tibetana con carne di Yak) rimette in forma i miei muscoli. Controllo minuziosamente la bici e rimango esterrefatto, tolto il pantano e’ immacolata e sembra nuova. Cambio freni e copertoni, 2500km li hanno messi a dura prova. Faccio scorta di cibo e frutta, riparto alla volta del campo base dello Xixabagma.

Tibet

VERSO IL TETTO DEL MONDO

13/10/2007

Viaggiare verso sud vuol dire avere di nuovo il vento in faccia, spingere come un dannato tutto il giorno per coprire una distanza ridicola. Il mio andare viene notevolmente rallentato e anche il morale ne risente, la salita stanca meno che sfidare queste potentissime raffiche che mi disarcionano dalla bici. Trovare un posto per piantare il campo e’ impossibile, il vento mi strappa la tenda ma per fortuna dei nomadi mi danno asilo al riparo sotto i loro recinti di pietra e mi rinvigoriscono con litri di the al burro. La mattina seguente non cambia l’intensità’ ne il verso del mio oramai inseparabile compagno di viaggio, grazie al cielo verso sera imbocco una stretta valle che taglia a ovest e come d’incanto l’aria s’immobilizza e la mia pelle può di nuovo assaporare il calore del sole. Sbocco su di un’altura con un immenso lago ai miei piedi, e’ il crepuscolo e le ombre dell’Himalaya assieme al rosso fuoco dei ghiacciai dipingono un paesaggio che immediatamente mi fa scordare le pene che ho provato fino ad adesso. Pianto la tenda sulla riva in concomitanza con una famiglia di nomadi molto più pratici di me; mi offrono la loro acqua visto che il lago e’ salato e non avrei potuto dissetarmi. Al mattino loro sono già partiti per gli alti pascoli e io proseguo verso oriente verso il Xixabagma. Pedalo sul letto di un fiume asciutto, sassi e sabbia non mi danno vita facile ma l’immensa sagoma innevata all’orizzonte stimola troppo la mia curiosità ne non mollo costi di spingere la bici per più di mezza giornata. La valle diventa un’immensa distesa di pascoli, mi accampo prima del tramonto giusto di fronte all’ottomila e mi gusto ogni sfumatura di arancione-rosso fin che la notte non cala. Ora seguo per un’infinita steppa disseminata di yak e pecore, nel primo pomeriggio raggiungo la Friendship HW che mi sembra liscia come un bigliardo. Le ruote corrono velocissime finalmente, non ci sono ne buche ne pietre, il mio sedere ringrazia. Ignaro di tutto mi avvicino al primo villaggio e vengo assalito da flotte di bambini con le mani tese che mi chiedono caramelle penne e addirittura “give mi dollars”. Scappo sconvolto e poco più in la donne anziane corrono su dai campi anche loro con le mani tese a chiedermi money. Non oso credere che sono nel medesimo paese di sempre, nessuno mi saluta più col meraviglioso e cantato “Tashi Delek” ma tutti dicono “hallo” seguito inesorabilmente dall’orribile parola “money”. Nel frattempo mille jeep piene di turisti mi sfrecciano accanto a velocità’ pazzesche, riesco a vederne in lontananza alcune che si fermano per scattare foto, pagare con manciate di caramelle e ripartire. Adesso sono davvero incazzato e al prossimo gruppo fermo in un villaggio faccio una scenata da paura e li supplico di non dare caramelle ai bambini e di non pagare i tibetani per le foto. Noi occidente abbiamo portato via tutto a questa gente e siamo rimasti impassibili mentre le loro terre venivano invase, adesso lasciamogli almeno la dignità e non trasformiamo questo meraviglioso popolo in un ammasso di mendicanti. Le nostre caramelle e le nostre penne non cambiano la loro condizione di vita, credo che una sincera chiacchierata (a mimo ma efficacissima) e alcuni minuti di gioco con i bambini facciano molto di più. Nel Tibet occidentale erano i bambini che davano le loro matite a me, la gente accorreva dai campi per invitarmi nelle loro tende e si era sempre in un rapporto idilliaco di uomo a uomo, entrambi pieni di curiosità’ per il diverso ma sempre con un immenso rispetto. Ci vogliono giorni per superare questo duro colpo, poi ci si mettono pure i cicloturisti che vengono da Lhasa diretti a Katmandu provvisti di auto di supporto e campi allestiti appuntino per fargli trovare sempre la pappa pronta e il letto caldo. Sfrecciano come pazzi sulle loro perfette bici leggerissime e non si fermano un secondo a vedere il Tibet, giù di scavezzacollo tra villaggi e in mezzo a gruppi di tibetani al lavoro sui campi; no un saluto, no un sorriso. La cosa che più mi fa girare le palle e’ che con me fanno lo stesso. Ne avrò incrociati una cinquantina ma mai nessuno a toccato i freni per salutarmi, figuriamoci per fermarsi per fare quattro chiacchiere. Non hanno mappe e non sanno dove sono diretti, l’unico obiettivo e’ arrivare all’immenso campo montato spesso in radure oscene perché i posti migliori gli hanno gia’ occupati i gruppi più veloci. Noto pero’ che i tibetani hanno capito la differenza tra chi ha le sacche e va verso Lhasa e chi non le ha e va in discesa verso il Nepal, ricevo di nuovo qualche invito ora che sto’ viaggiando su strade meno battute e ho sempre una risposta ai miei eclatanti saluti tra la gente dei campi. Sulla mappa e’ segnato come trekking ma la strada che va al campo base dell’Everest e’ percorsa da decine di jeep di turisti ogni giorno. Mi costa due giorni di dura pedalata ma arrivo anch’io sotto la faccia nord della montagna più alta, sono ai piedi del tetto del mondo. Fa freddo e tira un forte vento, la Guest house per i turisti arrivati in macchina e’ carissima. Per fortuna un monaco del monastero sulla rupe mi cede la sua stanza per la notte e ceno nella piccola cucina piena di adepti con zampa e the al burro. La televisione accesa da un film russo di guerra e qui’ tutti sembrano incredibilmente interessati a come va a finire. All’alba salgo in bici al presunto campo base ma e’ deludente il falso allestimento cinese e il divieto di proseguire oltre, intanto dozzine di turisti salgono su con carretti trinati da piccoli cavallini e con una coperta sulle gambe; anche ragazzi della mia eta’…mi sembra ridicolo. Dopo due giorni di curve arrivo in cima ad un passo dal quale la vista sull’Himalaya e’ mozzafiato, fa niente che sono a 5300m ma pianto il campo e attendo il gelido tramonto. Da adesso fino a Lhasa la strada e’ asfaltata, cercherò ogni strada che mi porti lontano dalla Frienship HW per godere a pieno della vera gente di queste terre.

Tibet - Lhasa

FINALMENTE LHASA

22/10/2007

Per ore sono stato davanti alla mappa del Tibet per scrutare quale poteva essere la strada più interessante per arrivare a Lhasa, alla fine ho scelto di dirigermi verso sud allungando di qualche giorno il viaggio ma evitando così i posti infestati dai turisti. Scelta azzeccata e lungo la sconfinata pianura gruppi di contadini che setacciano l’orzo (la farina tostata diventa Tsampa, alimento base per i tibetani) mi invitano continuamente a bere birra appunto d’orzo. Sono costretto a ridurre le mie pause lungo i campi se no mi ubriaco, più’ di una volta ho sentito l’alcol scorrere sulle gambe dopo momenti di relax coi tibetani. Più nessuno chiede “money” ne i bambini accorrono con le mani tese, sono di nuovo tra la vera gente, tra i puri che mi vedono come qualcosa di nuovo e interessante e non come un bianco con i soldi. Incredibili velocità riesco a tenere lungo tutto il giorno, distanze che prima percorrevo in due giorni di sudore e fatica oggi le copro in un giorno senza spingere troppo sui pedali. Ancora qualche passo sopra i 5200m mi separa dalle grandi città dello Ü-Tsang (la regione del Tibet centrale) ma l’asfalto liscio come marmo mi facilita incredibilmente le salite. Visito i grandi monasteri della regione scampati in parte alla follia distruttrice delle guardie rosse durante la rivoluzione culturale cinese, mi sento la controfigura di Brad Pitt in sette anni in Tibet ma poi orde di turisti da tutto il mondo entrano con fragorosa cagnara a importunare i monaci ficcandogli obiettivi in gola o rincorrendoli con macchinette usa e getta con la pretesa di fare uno scatto originale. Non mi resta altro che appartarmi e aspettare la chiusura dei monasteri ai visitatori per aggirarmi tutto solo per le viuzze assaporando l’ormai famigliare odore del burro che brucia e fingendo un’aria stupita quando le autorità cinesi mi invitano gridando ad uscire oramai dopo il tramonto. Preferisco non passare mai la notte nelle città e mi accampo appena fuori le mura, così al mattino ho sempre buona compagnia con ragazzini e contadini che mi aiutano a ripiegare la tenda e il più delle volte insistono col voler brindare alla mia partenza con la loro acidula birra ma li placo offrendogli il mio più salutare caffellatte con biscotti. Svolto ancora una volta per una stradina chiusa al traffico, salgo per una stratta valle gelida contornata da immense montagne con ghiacciai che giungono quasi fin sulla strada. Devo richiudere la bocca rimasta aperta dallo stupore perché mi stanno saltando i denti dal gelo, qua’ su fa di nuovo freddo da paura e una notte qua’ su mi congelerebbe le ossa. Decido di valicare il passo e di perdere quota, sta’ facendo buio ma la luce della luna quasi piena, riflessa dai ghiacciai,mi mostra la strada fino a valle. Trovo riparo sotto un grosso masso e al mattino un branco di caproni di montagna mi costringono a levare le tende di buon ora bersagliandomi di sassi dall’alto di impressionanti rupi che qui’ mi circondano. Ancora discesa gelida fino al lago sacro Yamdrok. Giornata memorabile lungo la frastagliata sponda fino all’ultimo passo prima della capitale. Ovviamente mi accampo dove la vista e’ migliore ma il freddo vuole il suo tributo. Dall’alto dei miei 5000m ho tra i più bei tramonti della mia vita e non sazio metto la sveglia alle sette per non perdermi neanche l’alba. Durante le mie continue uscite notturne dalla tenda per andare al bagno scorgo riflesso nel cielo un timido bagliore che deduco essere quello delle luci di Lhasa, la capitale e’ vicina e se avrò fortuna domani pedalerò al cospetto del Potala. Aspetto l’arrivo del sole che mi scongela la tenda e l’acqua per la colazione, davanti a me ho più di trenta chilometri di discesa e ho un po’ di preoccupazione per i miei freni che raggiungeranno temperature altissime, dovrò andare adagio per salvaguardare i miei cerchioni preziosissimi e insostituibili in questa parte del pianeta. Metto le cuffie e indosso tutto quello che ho, parto in picchiata cantando a squarciagola facendo mille zig zag per evitare le jeep de turisti che dalla capitale si accontentano di arrivare solo fino al passo per il panorama. Che ridere, mi si congela la mascella e biascico parole incomprensibili ma sono felice e innamorato dei miei pensieri arrivo troppo in fretta al fiume Brahmaputra che oltrepasso per l’ennesima volta. Sono di nuovo nella Friendschip HW, il traffico mi soffoca ma sono vicino a Lhasa e non ci faccio più di tanto caso. Pullman pieni di turisti quasi sbandano quando tutti quelli muniti di macchina fotografica si spostano sul lato destro per farmi foto dai finestrini chiusi. Fabbriche cinesi coprono la vista del Potala, una volta era la più imponente costruzione del Tibet e da qualsiasi punto della valle la si poteva vedere, ora ciminiere e fonderie sembrano volontariamente tentare di sovrastarlo a significare l’oppressione del progresso sulla religione. Quasi ci credo pure io, dal cartello “Lhasa” oramai sto’ pedalando da più di un’ora in una anonima città cinese come tutte le altre. Eccolo! l’ho intravisto tra il traffico infernale, svolto per una stradina, salgo su marciapiedi e evito auto impazzite. Spero nessuno osi attraversarmi la strada perché non posso guardare avanti, sono rapito dall’imponenza di questo palazzo ex residenza del Dalai Lama e simbolo dirompente del buddismo in tutto il mondo, ringrazio gli dei di questo mondo di averlo protetto dalle guardie rosse e preservato all’umanità. SONO A LHASAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA!. Non ho il cavalletto e quindi butto per terra la bici, accendo la videocamera e alla meno peggio immortalo questo momento desiderato da una vita. Felicita’, adrenalina e una immensa soddisfazione.

Tibet

LA VITA SECONDO PHEMATASHI

28/10/2007

Da quando sono a Lhasa vado molto spesso alla mensa per i pellegrini che ho giusto sotto la mia Guest house, Tukpa (zuppa di noodles e carne di yak) tre Yuan (0.30 euro) o momo (grossi ravioli sempre di carne di yak) quattro Yuan (0.40euro). E’ un grande cortile coperto da una tettoia in plastica che lascia filtrare una luce verdastra, panche tutt’attorno ai muri e bassi banchetti traballanti. E’ sempre pieno di gente e rigorosamente tibetani, nessun cinese metterebbe mai piede qui’ dentro. Sui tavolini centinai di banconote di piccolo taglio (Yuan 0.01 euro) che tutti mettono a disposizione delle generose donnine che instancabili passano con grossi termos a riempire i bicchieri di delizioso the dolce e poi direttamente si prendono il compenso. Lunghi pomeriggi sono stato qua’ dentro da solo ad osservare quello che succede e a fantasticare sui diversi luoghi di provenienza di tutta questa folla. Giungono qui’ da tutto il Tibet facendo viaggi anche di settimane per venire a pregare nel selciato davanti al tempio del Jokhang, il piu’ sacro di tutto il paese. Molti cercano di cominciare e tra sorrisi e mimi riesco sempre a dire qualcosa e a capire molto di più. Una mattina pero’ entro come al solito e un giovane ragazzo mi invita a sedermi al suo tavolo, incredibilmente parla inglese e iniziamo a chiacchierare del più e del meno bevendo the dolce. Le cose che mi ha raccontato hanno dell’incredibile.

Phematashi ha 26 anni e viene da Derge, un villaggio nel Kham proprio ai confini con la “Cina”.

-(D) Come mai sei qui’ a Lhasa? li chiedo incuriosito, non ha il fare di un pellegrino e veste bei vestiti all’occidentale.

-(P)La mia famiglia e’ di pastori e a me non piace stare con le bestie, troppo freddo la su…poi non posso più tornare, i cinesi mi cercano.

Incuriosito come non mai li chiedo

-(D) Perché, hai combinato qualche casino nel tuo villaggio?

-(P) No,no. Quando avevo sedici anni sono scappato dal Tibet e sono andato a Daramsala in India per vedere il Dalai Lama. E me lo dice con una tranquillità’ disarmante.

Rimango a bocca aperta e gli chiedo come cavolo ha fatto ad attraversare tutto il Tibet fino al confine Nepalese e poi da li raggiungere le montagne indiane.

-(P) Siamo scappati in piu’ di cento e bisognava stare attenti che se i cinesi ci vedevano ci sparavano. Mi ci son voluti due mesi per arrivare a Daramsala.

-(D) Ma come avete fatto a oltrepassare l’Himalaya?

-(P) Per un valico che i cinesi non conoscono e non troppo alto.

Io mi immagino questa lunghissima carovana di gente e animali che s’inerpica per piste ghiacciate su per montagne sconosciute ai piu’.

-(D) Ma il freddo, la fame….

-(P) Eravamo tutti giovani e forti, e’ stata dura ma siamo arrivati tutti al cospetto del Dalai Lama. Noi siamo nati su queste montagne e la dove le guardie cinesi morirebbero congelate noi possiamo bivaccare con qualche coperta di pelo di yak e un po’ di tsampa. Poi in Nepal e in India e’ facile, sono amici del popolo tibetano e gli ultimi chilometri gli abbiamo fatti in pullman.

Gli dico che io ci sono stato a Daramsala e subito si illumina.

-(P) La ho studiato il buddismo e ho imparato l’inglese. Sono rimasto in India per sette anni ma poi sono ritornato dalla mia famiglia. Li i cinesi quando mi hanno visto mi hanno chiesto dove sono stato tutto questo tempo e mi hanno arrestato per delle settimane. Appena mi hanno rilasciato sono scappato e sono venuto qui’ a Lhasa.

-(D) E adesso cosa fai per vivere? Perché non fai la guida col tuo perfetto inglese.

-(P) Le autorità cinesi non mi danno il permesso di lavorare coi turisti tantomeno la licenza per una piccola attività così compro e vendo cianfrusaglie antiche di sottobanco.

-(D) Ma com’e’ la convivenza con i cinesi? A questa domanda si apre una diga e si offre anche come interprete per tradurre i malcontenti della piccola folla che si e’ creata intorno a noi.

-(P) Non c’e’ integrazione e le autorità insistono ancora oggi con una politica estremamente oppressiva nei nostri confronti, una sera sono stato arrestato perché portavo il colletto alzato del giubbotto.

Il gruppetto si anima ma qui’ si può stare sicuri, non ci sono cinesi nei paraggi e Phematashi mi spiega le condizioni del presunto aiuto che il governo di Pechino ha portato al paese.

-(P) Le strade, l’acqua, il telefono. Le strade sono state costruite per far muovere rapidamente le truppe cinesi lungo tutto il territorio, la stragrande maggioranza dei tibetani non possiede macchine ma piccole motrici per arare i campi. A noi non ci servono. L’acqua arriva solo nelle città nuove fatte dai cinesi, nei villaggi non c’e’ e tantomeno l’elettricità’ che il governo cinesi si e’ impegnato a portare unicamente solo lungo la strada principale. La nuova ferrovia e’ principalmente adibita al trasporto merci, inimmaginabili quantità di materie prime, saccheggiate dal sottosuolo tibetano, raggiungono la Cina attraverso questa velocissima via che pochissimi tibetani useranno per spostarsi. Questo cosiddetto progresso e’ solo un’opera di colonizzazione che giova solamente ai cinesi che vivono in Tibet e a noi non porta nulla. Perfino il turismo e’ nelle mani di Pechino e noi ci accontentiamo delle briciole.

-(D) Ma perché, nonostante tutto questo, il Tibet e’ il paese in cui ho visto più gente sorridere?

-(P) E’ la nostra fede e la nostra speranza di un paese libero che ci permettono di essere sereni, ma ogni tibetano e’ felice fuori ma non così tanto dentro. Tutti portano il pesante fardello di non essere liberi e di vivere in un paese represso da più di cinquant’anni di soprusi.

-(D) Se devo essere onesto l’intera comunità mondiale non si cura affatto della libertà del Tibet. Ma voi sperate davvero in un paese di nuovo libero?

-(P) Ogni tibetano crede questo. La maggior parte delle preghiere dei fedeli lungo i kora (percorsi di pellegrinaggio) sono rivolte alla liberazione del Tibet.

Cerco di smorzare un po’ i temi della discussione che l’intera mensa sta’ scoppiando.

-(D) Domani voglio andare a visitare i templi della capitale, qual’e’ la loro storia?

Niente da fare, Phematashi non risponde alla mia domanda come vorrei.

-(P) Il biglietto d’ingresso va al governo di Pechino e tutte le banconote che i fedeli mettono sulle statue di Buddha e sulle figure sacre vengono rastrellate tutte le sere e vanno a sommarsi al profitto dei cinesi.

Resto stupefatto.

-(P) Per entrare nel Potala anche noi tibetani dobbiamo pagare e abbiamo dei giorni ben definiti.

Le autorità cinesi hanno lasciato in piedi pochissimi monasteri durante la rivoluzione culturale, adesso ne stanno restaurando alcuni ma solo per i turisti non per i tibetani.

La conversazione continua poi più leggera. Al momento di uscire dalla mensa mi avverte che potrebbe avere dei problemi se viene visto parlare con degli stranieri, non essendo una guida non si spiegherebbe il suo perfetto inglese.

Ci lasciamo con un abbraccio e gli prometto che non entrerò nei templi a pagamento.

E si, ma la voglia e’ tanta e la mattina alle sei e mezzo sono in piedi davanti al Jokhang cercando una maniera di infiltrarmi dentro. Mischiarmi coi pellegrini e’ improbabile, la mia barba risalta troppo. Scavalcare il muro non se ne parla. Mi accovaccio vicino ad una porta sul retro che di tanto in tanto vedo aprirsi. Aspetto illuminato da un’immensa luna piena. Si apre, corro dentro scusandomi col monaco che ha fatto scivolare il chiavistello…tre passi e vengo braccato da due poliziotti. Anche sta volta la tecnica del “non so” e dello sguardo vago funziona, mi cacciano a forza ma senza tanti casini. Niente, domani ne studierò un’altra per varcare la porta del tempio più sacro del Tibet senza andare a rimpinzare le tasche del governo cinese.

Tibet

L’AVVENTURA INFINITA

24/11/2007

L’indubbio fascino di Lhasa mi ha stregato ma le mie gambe stanno scalpitando per ripartire di nuovo verso terre sconosciute. In tutto questo tempo sono rimasto ad osservare come si muovono le cose per andare nel Tibet orientale, l’inaccessibile Kham. In pratica sembrerebbe impossibile e tutti gli avventurieri che ci hanno provato nell’ultimo periodo sono stati fermati e rimandati indietro dal PSB implacabile e letale in questa parte del paese. Ho informazioni riguardanti le ubicazioni dei vari checkpoint e le strade più nascoste per passare i grossi villaggi, in pratica ci sarebbero sette otto posti di blocco due dei quali inviolabili sembrerebbe. Perfetto, e’ una missione impossibili… e a me questa parola piace da matti. Revisiono la bici da cima a fondo, spedisco a casa un po’ di materiale superfluo e monto le gomme da strada per sfrecciare più forte. Sono pronto e gasato ma rimango un giorno in più per festeggiare il mio trentesimo compleanno con altri viaggiatori come me. Solo pochissimi hanno tentato l’intera attraversata del Tibet, i più che arrivano da Khasgar come me fanno rotta verso sud, in Nepal. Questo e’ un buonissimo motivo per provarci. La mattina della partenza sono rintronato dalle troppe birre per la mia festa, ho ricevuto anche dei regali (ovviamente cibo) e adorno il mio mezzo coi palloncini e tutti i fronzoli che raccatto dal pavimento della mia stanza. Il sole e’ alto e fa caldo, pedalo sereno fra il traffico di Lhasa incurante di ciò che mi aspetta da li a qualche giorno. La strada e’ asfaltata di fresco e i nuovi copertoni scivolano silenziosi quasi non conoscessero le regole fisiche dell’attrito. 140Km il primo giorno, spettacolare davvero e butto giù più o meno un itinerario e delle date su quando sarò in questa o in quell’altra città. Dopo quattro giorni di immacolato viaggiare supero il primo checkpoint di mattina prima dell’alba e qualche cane me la fa sudare dura ma al sorgere del sole sono gia’ lontano e al sicuro. Il giorno seguente supero altri due posti di controllo nella notte in quanto lontani appena 20km uno dall’altro e impossibile da superare all’albe sperando nella copertura del buio (20km sono due ore di bici su questa strada). Tutto secondo i piani e facile sembrerebbe, i tibetani di questi luoghi continuano a stupirmi con la loro ospitalità ma i cinesi perseverano con la loro innata tendenza a fregarmi i soldi rincarando cifre assurde per i miei pasti. Incominciano le salite, durissime perché con dislivelli notevoli. Al mattino valico passi sopra i 5000m per poi trovarmi alla sera immerso in vallate tropicali a 2000m, e così via per giorni e giorni. Un bel giorno sento un anomalo colpo al cerchione dietro, rotto un raggio. Su questa strada perfetta mi sembra anomalo, smonto la ruota e non ci posso credere: il cerchione e crepato per tutta l’intera circonferenza. E’ aperto a meta’ praticamente. La disperazione mi assale in un’attimo e mescolandosi allo sconforto per la fine del mio viaggio mi lascia senza reazioni. Sono nel mezzo del nulla, non passano camion o macchine, non posso raggiungere nessun paese in quanto mi arresterebbero all’istante e non c’e’ possibilità di sostituire il cerchione in tutta l’Asia in quanto pezzo unici e speciale (28 pollici invece che i comuni 26 di tutte le bici del mondo). Su un’altura vedo una baracca che sembra l’ideale per la notte, sono a 4500m e inizia a nevicare, la bici non può più essere montata, il mio peso spezzerebbe la ruota danneggiata. La spingo su per la collina, accendo il fuoco e penso al come uscire da questa situazione. Cambio il raggio rotto dalla parte del cambio e non ho la chiave per smontare gli ingranaggi, piego e tiro, deformo e stringo. Mi costa due ore di lavoro e il risultato e’ decente, ora devo pensare a mettere il tutto abbastanza diritto. E’ notte da un po’, fa un freddo cane ma la bici sembra apposto adesso. Pero’ il cerchione e’ così danneggiato che non posso usare il freno e quindi da oggi in poi avrò’ solo quello davanti. Alla mattina tutto procede decentemente e le discese riesco a gestirle lo stesso, sembra passato questo problema finalmente. Cerco un buon luogo per piantare il campo abbastanza vicino al villaggio di Tangmi dove mi aspetta uno dei più temibili checkpoint di tutta la regione. Incredibile; ieri stavo in mezzo alla neve e ora sono infondo ad una valle in pantaloncini corti con un caldo infernale scacciando zanzare e bagnandomi nel fiume per non sciogliermi. Sveglia alle cinque e ancora discesa, e’ buio pesto, la luce della luna non arriva infondo a questa vallata e d’incanto l’asfalto sparisce e inizia una pista di pantano. Questo non era previsto, non ci voleva.La mia inutile pila non mi aiuta più di tanto, il rumore del fiume mi tiene alla larga dal margine della strada che nasconde un profondo precipizio. Spesso il forte frastuono delle rapide rimbomba sulla parete della montagna e perdo completamente l’orientamento, sono costretto a fermarmi per ispezionare dove cavolo sono e dove scorrono le mie ruote. La mia marci rallenta incredibilmente e quando la salita incomincia sono in ritardo di un’ora, fra poco il sole sorgerà e sarò privo di alcuna copertura quando passero’ per il villaggio. Ho pedalato così spesso di notte che riesco a riconoscere gli animali dal riflesso dei loro occhi alla luce della mia torcia, mucche, cavalli e uccelli notturni vari. Spingo e spingo sui pedali come un dannato, posso spegnere la mia piccola pila adesso, c’e’ luce abbastanza. Mi immagino il poliziotto di turno che si sta’ alzando tutto assonnato, immagino i suoi occhi e spero che oggi non abbia voglia di fare nulla come spesso capita da queste parti. Vedo un sacco di camion fermi per l’ispezione, le sbarre sono ancora abbassate il che e’ un buon segno, staranno ancora tutti dormendo. Trascino la bici a raso terra e salto sui pedali e via, nessun rumore e nessuno mi ha visto. Un chilometro dopo , appena svoltata una curva un’altra sbarra chiude la strada e un pullman e’ li fermo con tutta la gente attorno e decine di poliziotti che li ispezionano uno a uno. Merda! hanno beccato un francese che tenta di entrare in Tibet, li sento urlare incazzatissimi. Mi faccio piccolo piccolo e mi intrufolo nella folla ma mi sento tirare per un braccio. Fatta sono fregato. Mi portano in uno stanzino e, sempre urlando, mi sequestrano il passaporto. Sotto ad un lenzuolo sudicio vedo una bici con le sacche, no no no. Questa e’ la fine che farà anche la mia, me la sequestrano e mi rispediranno a Lhasa. Aspetto due ore e un alto ufficiale arriva per chiedermi un sacco di cose in un inglese osceno, e s’incazza pure quando non capisco. Gli mostro i miei permessi scaduti e me li tira in faccia, tento di spiegargli che nessuno mi ha mai fermato o detto che io qui’ non ci posso stare ma lo vedo sempre più rabbioso e intuisco che la situazione si sta’ davvero mettendo malaccio. Se ne va, poi torna e così via per ore e ore. Alla fine mi dice che devo pagare una multa e prendere il prossimo autobus per Lhasa, la bici me la spediranno assieme al passaporto quando gli telefonerò da la. Non esiste e protesto ma sempre col fare da uno che non sa’ cosa ha commesso e assolutamente con gentilezza, qua’ rischio il carcere. E’ stata un’odissea ma alla fine ci accordiamo per solo la multa e continuare il viaggio a patto che se mi fermano ancora io non sono mai stato in quella stanza e non ho mai parlato con nessuno. Duecento Yuan, venti euro… quasi sorrido. All’inizio vedevo la mia bici andata e io a Lhasa costretto a volare a Katmandu, alla fine pago una ridicola somma e sono libero. Scappo letteralmente da quella caserma, via via più lontano possibile, e’ pomeriggio quando finalmente supero questo villaggio d’inferno. Un cane mi guarda, passo…all’altezza delle mie caviglie si butta addosso ringhiando rabbioso, un calcio sul muso non lo scoraggia. Senti le ganasce chiudersi a vuoto e, sto’ bastardo, mi azzanna le borse e mi blocca la bici all’istante. Cado incredulo dalla forza di questa bestia, avrò fatto i 20 allora e ha fermato una mole del genere in un baleno (io + bici siamo circa 130kg). Corro attorno alla bici che mi fa da scudo, mi sale l’adrenalina a mille e sto’ cane lo voglio uccidere. Raccolgo due sassi senza guardare, fisso la bestia negli occhi. Gli tiro due bordate da breve distanza e quella sulla testa lo fa demordere, se ne va ma non correndo. Rincaro la dose di pietre e cado seduto col fiatone e le gambe tremanti. La borsa attaccata e’ strappata in più parti ma il contenuto e’ salvo. Riparto e stavolta riempio la mia piccola borsa frontale di pietre, basta cani non ne posso più. Riprendo la salita felice di essere sopravvissuto due volte nello stesso giorno, che sia finito l’asfalto da adesso fino in Cina non me ne può fregar di meno.

Tibet

L’INVERNO ALL’IMPROVVISO

28/11/2007

Da adesso in poi l’asfalto me lo posso sognare ma tutto sommato la strada non e’ poi messa così male, questo mi fa ben sperare per il mio cerchione distrutto che, se sono fortunato, mi può portare ancora da qualche parte. Ho sbagliato di brutto le previsioni delle mie tappe, sono in ritardo alla grande ma in questa parte del Tibet i dislivelli sono allucinanti e le mie mappe poco precise e spesso mi trovo difronte salite inesistenti sulle carte. Scendo infondo a vallate per poi risalire su altipiani gelidi, duemila metri di dislivello sono niente da queste parti ma mi stanno sfiancando. Pero’ i paesaggi sono unici e la consapevolezza di essere il solo occidentale a pedalare qui’ adesso mi esalta. Ogni sera pianto la tenda in posti magnifici e il più delle volte cucino col la legna che da a tutto un sapore molto piuù romantico, meno romantiche sono le gelide mattine che mi vedono costretto a fondere il ghiaccio nelle mie bottiglie per poter prepararmi la colazione. I tibetani di queste terre sono prevalentemente contadini e allevatori di capre, nomadi come nel Tibet occidentale non c’e ne sono molti quindi l’unico contatto che ho avviene nei pochi villaggi lungo la strada, la maggior parte dei quali sono costretto a passare con l’oscurità’ perché zeppi di polizia cinese. Una mattina come le altre scendo per una piccola ma bellissima valle, comincio ad avvertire freddo sotto le mie due paia di guanti, anche il mio piumino sembra essere insufficiente. Sono in discesa ma pedalo lo stesso per muovermi in po’ e non sentire il freddo sempre più pungente. Entro nell’ombra delle montagne e sulla strada solo ghiaccio, scendo dalla bici e spingo con delicatezza. Qui’ il sole non arriva mai e si gela. Ho tutti i miei vestiti addosso ma non bastano, il freddo aumenta sempre più e sento il gorgoglio del ghiaccio che si sta formando nelle mie borracce. Non ho idea di quanti gradi possano esserci infondo a questa valle ma poche volte in vita mia ho patito così il freddo. Non posso pedalare ma devo uscire presto di qui’ se no le cose si mettono male, scivolo pericolosamente ad ogni passo ma per fortuna la bici sempre attutisce le mie cadute. Rialzarsi poi e’ un’impresa. Non vedo la fine di questa zona d’ombra, il sole e’ la su in alto sulla cime delle montagne, devo arrivare la in fretta che fra poco fa buio e io qui’ non ci posso stare se no ci rimango secco. Spingo, cado, mi rialzo e ancora cado; ad un certo punto mi viene pure da ridere per quanto mi sento impedito. Il fiume che sto’ seguendo trascina grandi zolle di ghiaccio che si incagliano sulle sponde, piano piano questo fenomeno aumenta e in un’ora la superficie dell’acqua e’ completamente congelata. Per fermare un fiume deve fare davvero freddo, impressionato spingo più forte e con le ultime luci del giorno riesco ad arrivate in un pianoro abbastanza ampio da montare il campo. Secondo i miei calcoli domani mattina il sole arriverà qui’ appena dopo l’alba. E’ inverno pieno a quanto sembra e devo salire ancora parecchi passi prima di scendere dall’altopiano, la cosa non mi preoccupa e continuo per la mia strada inconsapevole di cosa mi aspetta. Pedalo dalla mattina alla sera col piumino addosso e due paia di guanti ma tutto sommato proseguo ad un buon ritmo, alcuni passi sono tenaci ma la strada e’ in buone condizioni e da giorni no incontro ghiaccio. Dopo una lunghissima giornata sui pedali arrivo nella notte nel villaggio di Wanda e eludo il checkpoint con facilita’ passando per il retro di alcune capanne, una volta dentro cerco un posto caldo da dormire ma devo prima registrarmi alla polizia se no nessuno mi può ospitare. Non se ne parla nemmeno e opto per accamparmi fuori dal villaggio come il mio solito. Prima pero’ mangio un boccone e immancabilmente il cinese ai fornelli mi frega alla grande coi soldi e appena cerco di protestare mi minaccia di chiamare la polizia. Incazzato nero non ho scelta, pago e me ne vado il più’ in fretta possibile da qui’. Alle porte del paese pero’ due dolcissime ragazze mi offrono di dormire nel loro spartano hotel. Accetto non con pochi dubbi ma la camera e’ pulita e io sono stanco morto, lascio tutta la mia roba sulla bici che nascondo accuratamente dietro il caseggiato e svengo vestito. Mi svegliano grida e colpi sulla porta, merda e’ la polizia…l’incubo si e’ avverato. Non muovo un capello, trattengo il respiro. Uno parla in inglese, sono del PSB. Mi invitano ad uscire e sanno chi sono e bla bla bla. Tre secondi e decido di saltare dalla finestra, magari vogliono solo registrarmi ma stanno quasi buttando giù’ la porta e in più sono le tre di mattina, dubito che vogliano solo chiedermi come sto’. Butto le quattro cose che ho dal primo piano e salto sul terrapieno difronte al muro della mia stanza. La bici e’ qui’ sotto ma per svignarmela devo arrivare alla strada e non mi sembra facile. Spingo lungo il retro del piccolo hotel, vedo la macchina della polizia nel cortile e non c’e’ nessuno dentro. Posso aspettare qua’ nascosto fin che non se ne vanno ma se magari vogliono dare un’occhiata in giro? Via! salto su e pedalo piano piano fino alla strada, mi tengo coperto dall’angolo della albergo e per fortuna una curva mi aiuta a defilarmi. Salvo! e allora spingo con tutte le energie che ho in corpo, via, lontano lontano. Oramai farà giorno in poche ore, la luna mi mostrala strada, non mi fermo e pedalo nella notte tanto ci sono abituato.

Tibet

SENZA UN ATTIMO DI RESPIRO

5/12/2007

Ad ogni alba sembra fare sempre più’ freddo, oramai la tenda non si scongela neanche col sole quindi la piego come fosse di cartone e in qualche modo la carico sulla bici. Le bottiglie ho cominciato a metterle sotto il sacco a pelo per non fare congelare l’acqua ma e’ inutile e tutte le mattine granita o mojito per colazione. Dai che manca poco e poi si va verso sud in cerca del caldo, più’ precisamente ho l’ultimo passo sopra i 5000m, dopo solo grandi dislivelli ma non dovrò’ più’ salire così’ in alto a congelarmi le ossa. Il sole non si vede da oramai una settimana, fa freddo ma la salita un po’ riscalda, salgo salgo e il tempo si fa più’ scuro. Sembra nevicare ma spero sia solo il vento che muove cristalli di ghiaccio dalle vette tutt’attorno a me. No, incomincia a nevicare di brutto. La strada in pochi minuti e’ tutta bianca e non vedo che a pochi metri dal mio naso. Mi manca una vita prima di valicare quest’ultimo passo, devo assolutamente farcela prima che la neve mi blocchi qui’. Tornare indietro non se ne parla, rischierei di non passare fino alla prossima primavera. Via si va! convinto ma stremato dalla fatica avanzo sempre pedalando in un equilibrio precario. Oramai ci sono dieci centimetri di neve sulla strada, le borse davanti incominciano a toccare, dopo un’ora mi e’ impossibile pedalare e scendo a spingere come un dannato. Sembro uno spartineve e non si va più’ avanti, smonto le sacche e le carico dietro per poter proseguire ma con un peso così sbilanciato la cosa e’ tutt’altro che semplice. Anche stavolta sono in ritardo spaventoso, fra poco farà buio. Non ho scelta, devo valicare il passo e scendere più’ che posso, se monto il campo da queste parti domani mi ritrovo con un metro di neve e sarebbe la fine del mio viaggio e dovrei abbandonare la mia bici. Spingo fino al limite del mio respiro, la quota e la fatica mi annebbiano la mente, forse sto’ facendo una cavolate ma vado su. Sbavo come un cane rabbioso ma non ho il tempo di chiudere le labbra dal bisogno d’ossigeno che hanno i miei polmoni. Vedo le bandiere di preghiera, le sento urlare squassate dal forte vento sulla vetta, rimonto le sacche davanti così che frenino la mia discesa e sorrido nel pensare che oltre tutto questo ho pure un freno soltanto, ovviamente quello davanti. Niente paura perché spingo ancora e con forza, la neve mi arriva alle ginocchia. E giù, ma e’ buio pesto e incomincia a fare davvero freddo. La neve non si placa ma devo mettermi in salvo se no torno a casa quando arriva il disgelo. Per ore scendo lentissimo dalla montagna, la neve sulla strada adesso e’ poca ma continua a scendere dal cielo, la luna ricopre di fluorescenza tutto attorno a me e contemplo l’immensità di questo spettacolo anche se frastornato dalla paura per la mia situazione. Saranno le dieci di sera, mi sento un po’ più’ tranquillo e mi guardo attorno per montare il campo. Miracolosamente vedo una capanna in rovina. Non c’e’ il tetto ne finestre pero’ la porta e’ chiusa col lucchetto, non busso e la butto giù’ con tutta l’adrenalina accumulata oggi. Recupero del legno dagli infissi rimasti senza vetri e dal pavimento marcio, con la benzina accendo un grande fuoco e mi sento definitivamente in salvo. Sento dei passi sulla neve, guardo fuori e ci sono quattro ragazzini tutti infreddoliti che vogliono entrare. Butto legna sul fuoco e ci sediamo attorno, hanno scarpette di tela fradice, ne guanti ne giacche pesanti. Provo a chiedere che diavolo ci fanno qua’ su. Il loro autobus e’ rimasto bloccato dalla neve infondo alla valle e loro stavano provando ad arrivare al prossimo villaggio a piedi. Tiro fuori tutto il cibo che ho e mangiamo tutti assieme, mi offrono tsampa già mischiata col burro ma l’impasto e’ congelato e impossibile da mangiare. Fondiamo neve per ore e beviamo del buon latte in polvere, caffè no se no poi non dormo. Mi carico il più spavaldo sulle spalle per arrivare sul poco tetto che ci copre per scardinare i travi portanti, ci serve legna perché si muore di freddo se il fuoco si spegne. Tutti e cinque avvinghiati in silenzio a vedere le alte fiamme, si sorride ma nient’altro. Che razza di situazione sto’ vivendo. Butto il sacco a pelo li vicino e cerco di dormire ma e’ un utopia. Questi ragazzini si mettono a fare un casino della madonna e distruggono tutto per fare lega da ardere. Niente, me la metto via, per stasera non si dorme e un po’ mi girano perché nonostante le mie imprecazioni in varie lingue non smettono di far cagnara. Sorge il sole e ne sono grato, mi preparo un po’ di latte e li mando a quel paese. Mi spiegano che se si addormentavano il fuoco si sarebbe spento e il gelo li avrebbe colti nel sonno. Li guardo sbalordito e mi rendo conto che hanno addosso solo quattro stracci mentre io piumino e sacco da -30. Mi sento il più grande idiota che vive su questo pianeta. Praticamente non hanno dormito per restare vivi. Allora colazione per tutti e adesso non mi rimane neanche un biscotto da mangiare ma e’ il minimo. Mi aiutano a mettere la bici sulla strada e riparto verso la valle. Non nevica più e non ho paura, monto in sella e pedalo ma mi parte la ruota davanti e cado, si fa per dire perché le sacche si appoggiano alla neve e la bici si ferma a 45 gradi. La cosa non mi sembra tanto pericolosa, anzi mi diverto un sacco. Ovviamente mi devo scordare di toccare il freno, sarebbe un suicidio annunciato; per ridurre la velocità vado a lato della strada così che le sacche urtino la neve più alta. Vedo un grosso camion che sale lentissimo, non so dove vuole arrivare, la su c’e’ più di un metro di neve. Comunque mi apre la discesa e il gioco e’ fatto, penso. Non riesco a rimanere in piedi sulle tracce lasciate dalle ruote, la neve schiacciata e’ diventata come ghiaccio e allora procedo con la vecchia maniera. Dopo ore arrivo a due case e un piccolo negozio. Ovviamente i biscotti che compero sono scaduti da anni ma non c’e’ di meglio. Prendo il mio portafoglio per pagare e il ragazzo dall’alta parte tira fuori dalla giacca il suo, toglie la foto della sua famiglia e me lo porge. Mi fa capire che il mio e’ tutto rotto e che mi regala il suo. Fame, freddo, solitudine e estrema fatica, tutto questo e’ stato ripagato ampiamente da questo gesto per me commovente, Questo e’ Tibet. Mi invita a scaldarmi nella sua capanna e mangio questi biscotti raffermi, asciugo i guanti e le mie scarpe ma sta’ iniziando a nevicare di nuovo. Devo ripartire verso il fondovalle se no non sono tranquillo, basta con la neve adesso ne ho abbastanza. Ancora si scende ma molto lentamente, ora c’e’ poca neve e se cado qui’ mi faccio male. La neve che scende si trasforma in pioggia mentre la strada diventa un torrente di pantano. E per finire “Stok!” rotto un’atro raggio della ruota dietro e ovviamente dalla parte del cambio. E allora spingo di nuovo sta bici che mi sta’ facendo impazire. Arrivo vers sera in un villaggio, trovo da dormire da un cinese tutto contento perché sa’ che mi spillerà un sacco di soldi ma non ho scelta. Devo asciugarmi e trovare un modo per continuare il mio viaggio verso il confine.

Tibet

COME IL CACCIATORE DEL BUFALO PURPUREO

12/12/2007

In questo fradicio villaggio non c’e’ corrente elettrica e fa freddo, il pavimento della mia stanzetta senza finestre e’ in terra battuta che per l’occasione e’ cremoso pantano. Recupero due candele e prendo una decisione: per continuare il mio viaggio devo invertire i cerchioni mettendo quello ancora integro dietro così’ da non distruggere totalmente quello rotto che forse riesco a salvare. Faccio decine di foto per ricordarmi come vanno montati i raggi e con pazienza li smonto uno ad uno. Il cerchione rotto lo piego con le mari, ha la consistenza di un hula hop e lungo la grossa crepa scaglie di alluminio si staccano. Sinceramente lo lancerei infondo la valle ma in qualche modo devo rimontarlo. Un lavoro infinito con mille incertezze ma alla fine le ruote sembrano assomigliare alle originali, tirare i raggi poi…a caso non avendo idea della giusta tensione da dargli. Quella dietro gira al millimetro mentre davanti sembra quella dei cartoni animati della Disney ma funziona. Ovviamente il freno non lo posso usare ma ora ho quello dietro e di sicuro le cose miglioreranno. Passo la notte in bianco per le lunghe riparazioni, la mattina e’ grigia di una bassa foschia pesante, piove leggermente e la strada e’ una lingua di pantano rossastro. Inizio la salita delicatamente, quasi avessi paura di far male alla bici. Ogni minuto che passo sui pedali e’ un piccolo miracolo, le ruote girano lente ma non ci sono problemi. Forse ho indovinato la giusta tensione dei raggi e il giusto angolo, forse sono davvero incredibilmente fortunato. Su per ore fino ad incontrare di nuovo la neve poi giù’ per un’altra vallata di pini, sembra di essere a casa da quanto l’ambiente mi pare famigliare. La discesa non e’ molto impegnativa e in poche ore arrivo nel fondovalle, e’ ancora il Mekong questo grosso corso d’acqua; ma quante volte dovrò’ ancora passarlo prima di lasciarmelo alle spalle? Sinceramente non ne ho idea ma qualcosa mi dice che ci rivedremo ancora. La mattina mi sveglia un bel sole caldo, la strada e’ decisamente migliore e di nuovo salgo. La pista rossa si arrampica con decine di tornanti e colora di ocra tutta la montagna, il verde intenso dei bassi cespugli e ancora la bianca neve sulla cima. Le bandiere cinesi sventolano su ogni casa tibetana (ovviamente una imposizione di Pechino) ma sono numerose quello messe alla rovescia in segno di sottile tacita protesta mascherata da una finta ignoranza. Arrivo per l’ennesima volta appena prima del tramonto sul passo, di nuovo fa un freddo della madonna e mi sembra buona cosa scendere di qua’ in tempo zero. Ahh, grazie Luna! Vedo decentemente la strada e mi sento nelle condizioni di arrivare fino a Markam, l’ultimo grosso checkpoint prima del confine. Da queste parti e’ piovuto di brutto e la “pista” che sto’ seguendo e’ impraticabile. Spingo nella notte su cinque centimetri di pantano,sono fradicio e sporco da fare schifo…vedo pero’ le luci della città’ ed e’ fatta anche per oggi. Cerco un posto asciutto per montare il campo e svengo stremato dalla fatica. Un’altra mattina gelida, il fango sulla bici si e’ ghiacciato e sembra cemento. Dovrei staccarlo a martellate ma sul cambio e freni non posso usare tale impeto. Fondo della neve e con l’acqua calda scongelo la bici, tutto gira. Sarebbe buona cosa superare questa città’ nelle tenebre ma ho riflettuto sui rischi che correrei e sopratutto so’ che pullula di cani tra i quali quelli della polizia addestrati a mordere i ciclisti. Appena smontato il campo rimetto le ruote in ammollo sula strada, sta’ facendo giorno e vedo chiaramente in lontananza le porte della città’. Stavolta non sono invisibile grazie alla notte quindi dovrò’ stare molto più’ attento e silenzioso. I primi cani si fanno avanti sembrerebbe per curiosità’ ma non posso rischiare, scendo dalla bici e li caccio con una fitta sassaiola, nemmeno un guaito. Le prime sbarre le passo con facilita’, sembrano ancora dormire tutti. Poi pero’ c’e’ ne sono altre e vedo un po’ di traffico di camion, li non dorme nessuno. Mi tengo sulla sinistra semi nascosto dalla colonna di veicoli fermi per i controlli. Quando il primo parte lo seguo nella sua ombra e filo via come una scheggia. Sono fuori dall’abitato ma non posso credere che questa sia la strada principale per raggiungere lo Yunnan, e’ tutta buche e sassi…ovviamente fango ovunque. Mi trovo a pedalare in un cantiere di lavori interrotti dalle piogge, passerelle per guadare improvvisi torrenti e camion incagliati in qualche profonda pozza di pantano….in più’ piove. E’ la tipologia della terra che rende il tutto un’odissea, e’ simile ad argilla e l’acqua non filtra. Si formano piccole piscine dalla profondità’ occulta e lo strato di melma sulla strada e’ di almeno cinque centimetri. Pedalare neanche a pensarci e spingere sembra una delle sette fatiche di Ercole, accumuli di terra mi bloccano le ruote e spesso mi vedo costretto a trascinare la bici di traverso. Stamattina cercavo di preservarmi all’asciutto ma sprofondo in pozzanghere fino a sotto il ginocchio. Niente, non riesco ad andare avanti e lo sconforto torna a farmi visita. Ma il brutto non doveva essere già’ passato, ma come’ che mi trovo di nuovo nei casini? Ma le decisioni ,quando si vive in queste situazioni, sono davvero semplici da prendere perché’ e’ sempre e solo una: andare avanti. E allora su di nuovo in salita, i camion che incontro hanno le catene e non per la neve ma per districarsi meglio dal fango, poi caricano numerosi fogli di corteccia intrecciata che usano come antiscivolo quando slittano nelle pozzanghere. Un lago di melma mi sbarra la strada da parte a parte, ignoro di quanti centimetri e cerco di superarlo su un lato arrampicandomi sul ciglio e tenendomi in equilibrio sulla bici immersa fino ai pedali. Procedere e’ difficilissimo e la terra sotto i miei piedi comincia a cedere, zolle di terra cadono lentamente in acqua e sotterrano le ruote. Tiro ma la bici non mi segue. Se la mollo perdo l’equilibrio e finisco dentro, spingo con tutto quello che mi rimane…E si sono proprio io. Mi ricordo ,in un bagliore di lucidità’, il film “la storia infinita” quando il giovane Atreyu e il suo fedele cavallo Artax stanno attraversando la palude della tristezza, dove chi si fa sopraffare da quest’ultima rimane bloccato nel pantano e soccombe. Io no e tantomeno la mia bici, do strattoni fortissimi verso l’alto tanto da disincagliare le ruote dalla morsa del fango. Ora le borse riaffiorano e scendo in acqua, sprofondo rapidamente ma ho il tempo di sollevare la bici fino alla terraferma. Fatta! Che soddisfazione pero’, io sono Atreyu e la mia bici Artax; ancora insieme per questo lungo viaggio per salvare il mondo che non sa più’ sognare.

Tibet

FORSE IL MIO VIAGGIO FINISCE

21/12/2007

Non ci posso credere che non ho più posti di controllo dinanzi a me, l’euforia di questa libertà mi imprime nuova forza sui pedali. Il pantano continua a farla da padrone e sprofondo con tutte le scarpe mentre spingo la bici sugli ultimi passi himalayani. Ogni giorno spendo ore e ore per cercare un posto asciutto dove piantare la tenda ma non c’è un centimetro che faccia al caso mio. La strada tagli il ripidissimo versante della montagna ed è l’unico pezzo di terra calpestabile. Fradicio e sporco da farmi schifo bivacco in posti assurdi sotto un’incessante pioggia che mi inzuppa le ossa. In una mattina finalmente di sole, seguendo per l’ennesima volta il corso del Mekong, mi imbatto in un cartello per niente vistoso con scritto “Yunnan province”. Ho varcato i confini del Tibet, sono di nuovo in Cina. La mia impresa, il mio sogno è stato esaudito, ho compiuto ciò in cui credevo, inspiegabilmente non esulto, non scoppio in urla di gioia e lacrime come por mesi mi ero immaginato. Dentro di me la consapevolezza che l’avventura deve ancora terminare mi placa l’entusiasmo, i passi sono ancora alti e pieni di neve, la strada non migliorerà nelle prossime settimane, ho ancora mille chilometri e il mio famoso cerchione oramai ha i minuti contati. Convinto continuo verso sud. Salita e ancora salita, salgo nuovamente sopra le cime imbiancate e chiuse dentro la folle morsa dell’inverno. Ieri caldo ora si gela, faccio fatica a piantare i picchetti della tenda sul suolo ghiacciato, la notte anche nel mio riparo sono parecchi gradi sotto lo zero. Ancora mi trovo ad essere in spaventoso ritardo sulla tabella di marcia, la strada continua con stremanti sali e scendi. Pensavo di avere pedalato già nelle condizioni più assurde e su qualsiasi terreno, rimango sconcertato quando mi trovo davanti a centinaia di chilometri di strada tutta fatta di ciottoli. Disumano, sarà l’unico modo per salvaguardare queste rotte dalla neve e dal gelo ma pedalarci sopra sa da presa in giro. In salita si fa il doppio della fatica e in discesa si deve pedalare e nello stesso tempo controllare le vibrazioni che sembrano possano svitarti ogni bullone della bici. Spesso mi fermo e sono in equilibrio tra il mettermi a piangere e piegarmi dalle risate, quest’ultima ha però sempre vinto. Degli ottanta chilometri al giorno pianificati ne copro al massimo trenta. Ad un certo punto il ciottolato svanisce e appare l’asfalto. Nero nero, appena fatto, liscio e velocissimo. Mi sembra Natale e scorro via come un missile sul falsopiano che mi sta’ portando lentamente a valle. E chi riesce ad andare piano con una pista così invitante, la bici è ancora carica di cinquanta chili di attrezzature, io sfoggio ottanta e passa chili di zavorra ed ho solamente il freno dietro. All’udire un tremendo scoppio non mi sorprendo, la camera d’aria è esplosa per la temperatura che ha raggiunto il cerchione; un freno solo fa troppo attrito e la ruota diventa incandescente. Riparo il tutto e ritorno a pedalare stando attento a non commettere di nuovo lo stesso errore ma non è cosa facile. Nei tempi a seguire mi esploderanno decine di camera d’arie, addirittura anche due al giorno. Basta questo è troppo e voglio farla finita con quest’avventura, pedalo a marcia forzate spesso anche di notte per divorare strada e passi. Arrivo a Shangrilà, la prima città della Cina. Doccia calda e letto pulito, poi faccio l’incontro di alcuni viaggiatori e rivedere gente come me mi ricarica le batterie. Il nome leggendario è una trovata pubblicitaria cinese che ,deviando la storia, sostiene che la mitica città perduta sia questa ma non ve dubbio che invece si trovi in una valle in Pakistan. Adesso riprendo per la mia strada da ora mai più sterrata, non carico troppo cibo perché è pieno di piccoli villaggi e dell’acqua me ne faccio beffa visto che puri ruscelli scendono tutt’intorno a me. Per semplice fortuna mi imbatto in un gruppo di turisti che mi anticipano le sorprese che mi aspettano: deliziose città cinesi, ospitali minoranze etniche e perfino qualche occasione di assaporare un pò di vita notturna. Mi danno eccezionali informazioni su come e dove posso andare. Seguo una strada che non c’è nemmeno sulle mappe e arrivo nella città di Lijiang in una notte neanche tanto fredda. Sto cercando una Guest house ben specifica e dalle buie stradine una sorridente ragazza mi prende per mano e ,senza proferir parola, mi conduce proprio in questo luogo, magia forse? ma quando si viaggia questo è quotidiano. Sono ospite dei Naxi una minoranza etnica di queste regioni, è tardi ma mi rifocillano per bene e accanto a me c’è un vivace gruppo di viaggiatori. Mi unisco a loro e d’incanto mi ritrovo a confrontare idee e a cantar di sogni, che bello dopo tanto tempo ritornare a mettere in parole tutte le riflessioni fatte fino ad allora. Rinasco. L’ospitalità di questa gente lascia sconcertati, l’anziana mamma della famiglia si preoccupa che mangi abbastanza tutti i giorni e alla sera mi entra in camera per rimboccarmi le coperte, ha tutto un gusto di casa. Riparto dopo pochi giorni per Dali, un’antica cittadella dalle alte mura, un po’ turistica ma consapevole di un fascino ammaliatore. E’ la Cina dei film, coi maestri di Kong Fu che calciano l’aria alla luce del tramonto sopra gli immensi bastioni. No mi stancherei mai di passeggiare per gli antichi viottoli, sento un’energia d’armonia. Con stupore scopro di non essere l’unico e molti europei hanno scelto questo luogo per viverci. Mai avrei immaginato un posto così in Cina, nel paese dove tutto è proibito, dove la libertà è tutt’oggi un’utopia, quest’oasi di serenità sembra fuori luogo. In India potrebbe esistere Dali, ma qui e incredibile. Manca poco a Kunming la mia meta finale, però la strada è tremendamente trafficata e non ho vie alternative all’autostrada. In tre giorno copro i chilometri che mi mancano e ancora per caso trovo subito la Guest house che cercavo. E’ impossibile per me esultare ancora, devo ritornare ad Hong Kong e rimettere la bici su diversi aerei per tornare a casa. Voglio tornare per Natale e impiego giorni a trovare lo scatolone e farci stare la mia fedele bici. Aspettare il rientro è un’attesa che ha del romantico, ho fatto l’impossibile ma mi sembra niente paragonato alla gioia di vedere la mia famiglia e i miei amici tutti. E’ senza dubbio la fase del viaggio che preferisco in assoluto, il ritorno è lo scopo del mio andare. Prendo un’aereo, poi un’altro, faccio uno scalo e la mattina di natale sono in Italia. Fa freddo ma quello bello col sole che splende, alla vista dei miei genitori una reazione di autodifesa non ci fa incrociare gli sguardi bagnati dalle lacrime. Abbracci e via veloci verso casa. Seimila chilometri e mesi di totale isolamento, un’avventura inimmaginabile e dopo tutto questo non mi sembra mai di essere partito. In questo mondo che ho lasciato, il tempo ha scandito solo cinque mesi di lenta e sempre uguale vita, in questo stesso tempo per me ne ho vissute mille di vite. Scarico i bagagli nel cortile di casa mia, l’enorme pianta di cachi e carica ma senza foglie, è sempre stata un’immagine triste per me ma non ora, abbraccio mia nonna e corro nella mia stanza. Cado in ginocchio con le mani tra i capelli e urlo, urlo da far tremare gli specchi, adesso è fatta. Nulla più mi può capitare, ne neve ne ghiaccio ne la bici ora sono più miei problemi. Sono finalmente al sicuro. Poi rivedo gli amici più cari, coloro ai quali ho pensato nei momenti di sconforto…Mi sembra di destarmi da un sogno per riviverne un’altro.

4 commenti
  1. Arianna
    Arianna dice:

    Ho appena finito di leggere il racconto del tuo viaggio in Tibet.. una sola parola: wow.
    Complimenti per la tenacia e il coraggio, per favore continua a scrivere dei tuoi viaggi… è splendido riuscire a vedere tali paesaggi e persone con i tuoi occhi, immergersi nei tuoi pensieri… è un po’ come viaggiare con te.
    Continua ad essere forte e puro :)
    Buona fortuna per i tuoi viaggi futuri!
    Pace ☮

    “May the road rise to meet you,
    May the wind be always at your back.
    May the sun shine warm upon your face,
    The rains fall soft upon your fields.”

    Rispondi
  2. Federico Sabolla
    Federico Sabolla dice:

    Ciao Dino.
    per leggere il tuo Diario sul TIBET ho preferito stampare le pagine e gustarmi ogni frase sulla carta.
    Avventura fantastica sia per l’impresa sportiva che per lo scontro di culture. quali viaggi stai preparando oggi? continua a realizzare sogni impossibili!!! alla prossima lettura.

    Federico.

    Rispondi

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